Reportage

Una piccola città diventa grande: Il Cagliari Calcio

Autore: Laura Puddu,
31 gennaio 2011, 12:41
Quando una città meridionale vince per la prima volta lo scudetto.
Il ritiro della maglia n. 11 - Sant'Elia Cagliari
Il ritiro della maglia n. 11 - Sant'Elia Cagliari

La maglia numero 11 si racconta

Gigi, cosa si prova quando una squadra ritira la maglia in suo onore?
“Beh, è l'inizio della vecchiaia! No, scherzo... E' stata una forte emozione. Soprattutto perché sono stati i tifosi, attraverso una raccolta di firme in internet, a chiedere che venisse ritirata”.

Un giusto riconoscimento per chi ha dato tanto a questa città. La sua storia d'amore con i cagliaritani è iniziata quando lei era molto giovane...
“Ero un bambino, non avevo nemmeno 18 anni. Inizialmente non avevo preso bene il trasferimento: ero piccolo, al nord non si parlava bene della Sardegna e mi sentivo solo, lontano più di mille Km da casa mia. Ma mi sono presto inserito perché ero chiuso, solitario, mi facevo i fatti miei e Cagliari, con il suo essere molto discreta, mi permetteva di non modificare il mio carattere”.

Gigi Riva nel cortile del Palazzo Civico di via Roma a CagliariQuindi si è ambientato velocemente...
“Si si, la gente era gentile e mi faceva vivere come meglio credessi. Insomma, in pochissimo tempo mi ha conquistato. Inoltre è anche arrivata la promozione in serie A e la voglia di giocarmela mi ha definitivamente convinto”.

Quanto è stato amato dai tifosi rossoblu?
“Tantissimo. E il loro affetto l'ho sentito sempre. L'ambiente mi stimava e mi amava perché al pubblico sardo piace chi non si arrende ma combatte, più di chi ha tecnica ed io ero uno di quelli”.

Insomma, sicuramente era un gran lottatore, ma mi pare che la tecnica non le mancasse...
Sorride.

Lo sa che per i sardi lei è un eroe? Gli ha dato il coraggio di poter gridare fieramente “Io sono sardo”.
“So quanto è stata importante la vittoria del campionato per fare capire a tutta l'Italia, soprattutto al nord, che la Sardegna non fosse 'solo una terra di pastori e banditi' come credeva chi non la conosceva. Quando sentivo un'affermazione di questo tipo mi incavolavo e lottavo ancora di più in campo. E avvertivo un senso di responsabilità, perché era come se 'un popolo chiedeva di vincere'. Lo scudetto è stato fondamentale per mostrare una terra in modo diverso da come, erroneamente, si pensava.
A Torino e Milano gli emigrati sardi soffrivano: facevano i lavori più umili, si sacrificavano, ed erano considerati gli ultimi della lista. Ma la squadra gli ha dato la prima vera rivincita sociale”.

Lei è l'esempio tipico di chi di Cagliari si è innamorato e non ha più voluto lasciarla. E ha deciso che questa è la sua terra. Perché?
“Io a Cagliari sono diventato un uomo! Sono arrivato che ero un bimbo, sono cresciuto e maturato. Ma soprattutto la gente di questa città è dolce e affettuosa, e al tempo stesso riservata: quando giocavo potevo girare tranquillamente e nessuno è mai stato noioso o pesante. Se mi fermavano per strada era solo per abbracciarmi e dirmi 'bravo', non sono mai stato aggredito per un errore”.

Diciamo che il carattere dei cagliaritani è stato fondamentale per la sua decisione.
“Si si, con me loro sono andati ben oltre il rapporto sportivo. E non solo con me. Se siamo rimasti addirittura in 8 su 11 giocatori degli anni dello scudetto è proprio perché ci hanno dimostrato calore e affetto, sempre”.

Lei ha ampiamente ricambiato. Ha rifiutato le offerte di grandi squadre, prima fra tutte la Juventus, e di conseguenza a grossi guadagni.
“Non me la sentivo di tradire delle persone così buone e affezionate a me”.

Quali sono stati gli anni più belli con la maglia rossoblu?
“Sicuramente quelli dal 1968 al 1972: la carriera all'apice, lo scudetto...”

E anche parecchi infortuni, purtroppo...
“Eh si. Quelli che non mi hanno permesso di vincere di nuovo e rendere ancora più felici i sardi”.

Le sono già molto grati, mi creda.
Sorride di nuovo e aggiunge “Ho giocato molto spesso 'rattoppato'. Pensi che mi vogliono talmente bene che, se dovessi andare all'estero e chiedere un favore ad un sardo emigrato, non esiterebbe un solo istante”.


Grande merito, per la vittoria del campionato, va senza dubbio all'allenatore Manlio Scopigno, che era esattamente il contrario della figura caricaturale di allenatore-mago molto di moda in quegli anni; per lui non conta l'osservanza del ritiro e della castità, il controllo asfissiante della dieta e dei carichi di lavoro, la puntualità nell'andare a letto (possibilmente presto).
Scopigno è un tecnico bravissimo, il suo Cagliari lo plasma sin dall'inizio per renderlo più possibile vicino alle sue idee e lo costruisce pian piano: il suo gioco esalta per lo più le caratteristiche di Riva.

Signor Riva, cosa ci dice di Scopigno?
“Era un grande. E per me anche un amico. Era bravo tatticamente ed umanamente. Parlava con i singoli giocatori, ma anche con il gruppo. Non alzava mai la voce. Se a tavola facevamo troppo caos, bastava che desse un colpo con il cucchiaino nella tazzina e immediatamente calava il silenzio. Ti dava fiducia ciecamente ma non dovevi tradirlo: se ti dava un'impostazione in campo dovevi seguirlo, altrimenti a fine anno ti mandava via. Chiedeva solo questo. Gli ho voluto bene come fosse un fratello, anzi un padre perché lui mi dava una mano come se fossi un figlio”.

Crede possibile che un'altra squadra del sud vinca lo scudetto, di questi tempi, anche se in effetti in questo momento c'è il Napoli secondo in classifica?
Sospira. “Purtroppo no. I vertici del calcio sono al nord, noi siamo stati i primi e penso rimarremo gli unici. Quando scendevamo in campo, tutto il sud era con noi. Da Firenze in giù il tifo era per il Cagliari”.

Un suo grande amico è stato Marius, fondatore del primo Cagliari-Club, nel 1967.
“Lui era proprio il maggior rappresentante di ciò che sono i sardi: fedeli, educati ma al tempo stesso allegri e divertenti. Portava la sua banda allo stadio e animavano con cori simpaticissimi. Non esiste più questo tipo di ultras, peccato”.