Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Il triste ricordo delle bombe su Cagliari

Fonte: L'Unione Sarda
18 febbraio 2010

I racconti di chi ha vissuto in prima persona le incursioni aeree che distrussero la città

«Quel 17 febbraio del 1943 diventai adulta in un istante»

I sopravissuti ricordano il dolore per la morte dei parenti e la distruzione.
Pierpaolo Piludu lo ha trasformato in uno spettacolo teatrale: “Cagliari 1943: la guerra dentro casa” (oggi viene replicato alle 20,30 all'ex Vetreria) è il racconto del bombardamento subito dalla città nella Seconda guerra mondiale. Un modo per ricordare e anche per evitare, attraverso la conoscenza, che quei terribili momenti possano ripetersi. Perché rappresentano un incubo che incide profondamente sulla vita di chi è stato diretto protagonista. «La guerra è l'incubo della mia vita», racconta Paola Ferro che, durante i bombardamenti, era una bimba di 10 anni.
IL GIOCO Lei, insieme alla sua famiglia, in quei giorni viveva in via Macomer. «I miei genitori», ricorda, «erano molto protettivi: addirittura, erano riusciti a trasformare, nella mia testa, la guerra in un gioco. Mio padre era convinto che, a Cagliari, avremmo vissuto il conflitto da spettatori». Ma quel bombardamento trasformò, in un istante, la bambina in un'adulta. «Anche quando cominciarono a cadere le bombe sulla città, la mia famiglia non si preoccupò eccessivamente: c'era la convinzione che sarebbe stato colpito soltanto il porto». Ma la pioggia di bombe cominciò a cadere anche sulla città. «E, a quel punto, mio padre che era il capo edificio, si mise su una sorta di terrazzino per controllare che tutti gli abitanti entrassero nella grotta naturale che fungeva da rifugio». Particolarmente tragico fu il bombardamento successivo, quello del 26 febbraio. «Persi uno zio: lì, davvero, la guerra si presentò in tutto il suo orrore». Fu sventrato anche il palazzo che faceva parte dell'isolato. «A quel punto, la mia famiglia decise di fuggire. A piedi, portando anche i due cuginetti rimasti senza padre». In serata, i sei fuggitivi arrivarono a Settimo dove una coppia di giovani sposi mise il proprio materasso per terra per far dormire i quattro bambini. «Poi, il giorno dopo, riuscimmo a prendere un treno merci e arrivammo a Nurri». Il ritorno a Cagliari tre anni dopo. «E lì vidi davvero la città distrutta».
LA MALARIA A Monserrato le bombe arrivarono prima. «E uccisero mia sorellina di appena due mesi», racconta Albina Dessì, all'epoca bambina di cinque anni. «Quando iniziarono gli spezzonamenti, ci sistemammo nel salotto vicino agli stipiti delle porte per sentirci al sicuro. Rumori tremendi che, probabilmente, fecero morire di paura mia sorellina. Mio padre, allora, non c'era: era stato richiamato alle armi. Quando lo informarono della morte di una figlia, pensò che fosse la maggiore, malata di malaria». Il 17 febbraio la famiglia decise di fuggire. «In un carro trainato da un cavallo: portammo le cose indispensabili, comprese le galline che ci davano uova fresche. Andammo a Siurgus Donigala». Lì, per la sua famiglia, finì la guerra. «E cominciò la fame: basti pensare che mia madre ricavava i vestiti usando il tessuto delle tende».
LE OSTIE Gli strani giochi della memoria. Anche Dolores Melis, allora quattordicenne, lega al cibo il ricordo del bombardamento. «Ci stavamo per mettere a tavola quando suonò l'allarme». Passarono pochi secondi e comparvero gli aerei. «Brutti, tozzi, facevano paura solo a vederli». Lei e la famiglia, dal Corso dove abitavano, cominciarono a correre verso i rifugi di viale Merello. «Noi lo raggiungemmo. Zio Enrico no: cercò riparo in un bagno pubblico e venne ucciso dal bombardamento». Il ricordo evoca immagini surreali. «Mentre scappavamo, incrociammo il parroco del Carmine Vincenzo Antenucci: ci urlò “Coraggio, fratelli”, mentre correva a portare le ostie consacrate dal Carmine alla chiesa dell'Annunziata». Terminato il bombardamento, la famiglia, nel giro di mezzora, partì. «E raggiungemmo Terralba. Insieme a noi, tantissimi vicini. Sembrava incredibile vedere la gente del Corso riunita in quel piccolo paese».
MARCELLO COCCO

18/02/2010