La raccolta di saggi curata da Roggio indica un equilibrio più sereno tra territorio e residenti e denuncia i crimini estetici di casa nostra
«Nel suo lavoro - scrisse Rossini a un giovane compositore che non meritava lodi - c'è del nuovo e c'è del buono. Ma quel che è nuovo non è buono. E quel che è buono non è nuovo». Anche nell'ambiente e nell'urbanistica della Sardegna c'è del buono e c'è del nuovo, avvertono gli autori di “Paesaggi perduti”. E concludono proprio come Rossini.
Il libro curato dall'architetto Sandro Roggio e recentemente pubblicato dalla Cuec (142 pagine, 13 euro) raccoglie alcune voci sarde degne di attenzione e le fonde in una polifonia suggestiva, che suona ora come una ballata nostalgica su panorami e identità svaniti, ora come una sirena d'allarme sui danni che ancora possono accadere (vedi il Piano Casa) ma soprattutto come un coro di condanna per quanto è stato fatto. «La Sardegna brutta c'è» esordisce Roggio nell'introduzione per poi spiegare con la storica dell'arte Annalisa Poli su quale pericolo estetico e sociale ci stiamo affacciando: un'isola vuota al centro, centrifugata di ogni insediamento e attività dalla corsa verso il mare. Insomma, non c'è solo il rischio che prosegua lo scandalo di villettopoli con paesaggi sempre più anodizzati, cementificati, lamierati: il guaio ulteriore sarà che per consumare le coste si spopolerà definitivamente l'interno. Un problema di sciatteria collettiva? Di inerzia dell'opinione pubblica? Di pavidità politica? C'entra tutto questo, ma prima di tutto c'entra la poca autostima dei sardi, che per un paradosso solo geografico quando abitano al centro si sentono marginali e periferici. E quindi ecco che «piccoli comuni dove passano venti smarriti visitatori all'anno si augurano la moltiplicazione dei turisti balneari interessati alla “Sardegna vera” nelle brutte giornate (...) Così invece di provare a piacersi, c'è chi pensa di allestire continuamente lo spettacolo per sos istranzos , confezionando scenari che associano verità a complimentose mascherate».
È un po' l'angoscia dello scrittore Marcello Fois, che traccia una esilarante fenomenologia della tavernetta e intanto ammonisce: «Non è sempre necessario demolire per cancellare la propria storia urbana, qualche volta si distrugge anche costruendo una parastoria». E giù nerbate sul «grazioso» e il «pittoresco» che rimpiazzano, quando non l'antico, comunque l'autentico. Anche più divertita la meditazione di Sante Maurizi e Antonello Grimaldi davanti al residence La Marmorata di Santa Teresa, immane sfondo cementizio al dialogo tra il teatrante e il regista che teorizzano la “sindrome di San Teodoro”. E se la passeggiata cagliaritana dello storico Luciano Marrocu è una constatazione stralunata di quanto il presente non rispetti il passato civico, il microtour sassarese dell'economista Marco Vannini documenta con fredda polemica quanto spesso il presente non rispetti neppure se stesso. Infine (ma i contributi andrebbero citati tutti, a cominciare dal dialogo tra Maria Antonietta Mongiu e Franco Masala in lode e compianto di Sant'Avendrace) il romanziere Salvatore Mannuzzu, che chiude il suo perfetto racconto della crisi di Sassari su note di ottimismo della volontà (volontà di essere ottimisti, si direbbe). I giornalisti Giacomo Mameli e Giancarlo Ghirra invece non possono permettersi note di speranza. Il primo racconta il sacrilegio di Perdasdefogu, con la parrocchia del '500 spianata per fare spazio a un “campetto”. Il secondo firma una requisitoria appassionata e puntigliosa sul cemento colato su Capoterra in assenza di piani urbanistici, preparando il terreno alla tragedia che cronisti banali hanno chiamato alluvione-killer. Come se a uccidere non fosse l'uomo.
CELESTINO TABASSO
22/01/2010