LUNEDÌ, 11 GENNAIO 2010
Pagina 2 - Fatto del giorno
Il popolo dei volontari alla Fiera accoglie l’invito del vescovo
GIUSEPPE CENTORE
CAGLIARI. Rosarno è lontana, sotto tutti i punti di vista, ma il germe dell’intolleranza potrebbe arrivare anche da noi. I migranti che lì sono stati sfruttati sino a ieri con una paga da fame per un lavoro da schiavi, nella indifferente complicità di buona parte della comunità, qui possono trovare la comprensione delle istituzioni, pur nel rispetto delle regole, e la solidarietà della gente.
Lo dice con voce vibrante il vescovo di Cagliari Giuseppe Mani, lo ripetono i rappresentanti della cinquanta nazionalità che ieri si sono dati appuntamento alla Fiera Campionaria per una giornata del migrante che anticipa di pochi giorni quella che sarà celebrata dal Papa, «e che non è legata in alcun modo - precisa Mani - a quello che sta succedendo in Calabria». La Festa dell’Accoglienza ha avuto un regista impeccabile, lo stesso Vescovo, un protagonista inarrestabile, come Don Marco Lai, e un braccio esecutivo che arriva dove le istituzioni sono assenti o carenti: la Caritas. Nelle sue mense e nei centri d’ascolto la presenza di extracomunitari è quotidiana. Ieri la Fiera era occupata da un migliaio di operatori del volontariato e dagli ambasciatori delle comunità presenti in Sardegna.
Ambasciatori più che delegazioni, perché gli stranieri presenti nella grande sala, alla fine, non saranno stati più di un centinaio. Ma sono stati loro a occupare le prime file vicine al Vescovo: leggermente defilati i rappresentanti delle istituzioni: impossibile mancare all’appello di Mani per gli assessori regionali Manca (lavoro) e La Spisa (programmazione), per il sindaco Floris, per il presidente della Provincia Milia, e soprattutto per i vertici dello Stato, dal rappresentante del governo, il viceprefetto Bruno Corda al Questore Salvatore Mulas. «La parola che viene dalla Sardegna cristiana è di pace e fratellanza. Con i nostri fratelli ebrei e musulmani ci riconosciamo nello stesso Dio, e non vogliamo, non dobbiamo, non possiamo avere paura del diverso. Gesù ci ha detto: “qualunque cosa facciate ai miei fratelli, è come se l’aveste fatta a me”. Su questo punto, non sul resto, saremo giudicati. Voi siete per noi necessari, ma vi chiediamo di accogliere anche noi con disponibilità e affetto».
Il Vescovo ha confermato che alla fine del Sinodo diocesano, il prossimo 7 febbraio, promulgherà una legge che metterà i centri di culto cristiani a disposizione delle altre etnie e religioni. In parte ciò avviene anche adesso, per i filippini, i rumeni, gli ortodossi, gli uniati (greco-cattolici provenienti da Ucraina e Bielorussia) e naturalmente per i polacchi. Volontà del Vescovo è aprire il più possibile le porte degli edifici religiosi a tutte le altre confessioni.
Dopo Mani è toccato ai rappresentanti delle Istituzioni, compresi viceprefetto e questore. Interventi non di rito, ma ricchi di spunti. «Il germe dell’intolleranza è sempre in agguato - ha ammonito il rappresentante del governo - il veleno della discriminazione viene bevuto poco per volta, ma i suoi effetti durano a lungo. La Sardegna forse non era consapevole che era anche essa meta delle rotte della disperazione. Eravamo culturalmente impreparati a capire la dimensione locale del fenomeno, ma la presenza della Caritas per noi si è rivelata fondamentale. La multiculturalità è un beneficio, una opportunità che non dobbiamo sprecare». Apprezzamento per la costante attività della Caritas anche nelle parole del Questore. «I respingimenti non sono un atto che si esegue a cuor leggero, ma noi dobbiamo applicare la legge, votata dai rappresentanti del popolo. Sappiamo però che dietro a ogni uomo c’è una storia, spesso un dramma, da capire e rispettare».
I brevi, colorati, simpatici, anche se un pochino retorici, saluti dei rappresentanti delle comunità hanno chiuso la mattinata. Dopo il pranzo, dominato dall’accoppiata malloreddus-couscous, canti e balli sino a sera. Oggi sarà una giornata diversa per tutti, e i problemi di integrazione, di ricerca di un lavoro, di elusione dei controlli per i clandestini, si riproporranno identici. Lo sanno bene due sardi di origini ben diverse: Jasmine, mediatrice culturale Caritas, nata a Mostar, capitale dell’Erzegovina, «ma io mi sento jugoslava», da 17 anni lontana dal conflitto dei Balcani, con un figlio laureato con successo in Italia, e Golan, di Barguna, nel sud del Bangladesh, andato via a 19 anni dalla sua città, dal 1995 a Cagliari, rappresentante dei 400 bengalesi sardi.
Jasmine si sente a casa, «anche se non vedo alcuni miei parenti da quando ho lasciato Mostar questa è la mia terra; da voi ho avuto tutto. La Sardegna per noi è un paradiso», Golan crede in una maggiore integrazione e cerca uno scambio religioso e culturale, lui fervente musulmano, con i suoi fratelli sardi. Golan lavora nel piccolo commercio, saluta nella sua lingua e ricorda quanti “taka” guadagna un suo coetaneo negli sterminati campi di riso che danno sull’oceano Indiano. In euro fanno 10 centesimi al giorno. Una somma che giustifica tutto, ma proprio tutto.