Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Il bomber gioca all'attacco: «Quell'area resti pubblica»

Fonte: L'Unione Sarda
30 dicembre 2009

Gigi Riva e la battaglia contro la delibera del Comune 



Al giro di boa delle 65 primavere ribadisce di non voler portare il cervello all'ammasso: «Sono nato libero e liberamente voglio continuare a dire la mia». Così Gigi Riva, con un passato da leggenda del calcio italiano e un presente da team manager della Nazionale, tira fuori la corazza da guerriero sardo («ho passato qua 46 dei miei 65 anni») e si prepara alla crociata per mantenere il Sant'Elia uno stadio di proprietà pubblica.
Perché è così contrario alla costruzione di un impianto privato?
«Non ho mai detto di esserlo. Il Cagliari calcio ha tutto il diritto di realizzarne uno di sua proprietà. Ma non mi sembra giusto che lo faccia buttando giù il Sant'Elia».
E perché in tanti dicono che la struttura attuale è ormai inadeguata?
«Le condizioni precarie sono sotto gli occhi di tutti e mettono tristezza anche a me. Ma prima bisognerebbe chiedersi perché la situazione è così compromessa. Dal 1990 a oggi il Comune ha fatto tutti gli interventi straordinari che erano di sua competenza? E la società ha svolto con puntualità la manutenzione ordinaria? Io credo che non sia così».
C'è qualcosa di personale con il presidente Cellino?
«Assolutamente no, anzi credo che esista un rapporto basato sulla stima reciproca. Massimo fa molto bene il suo lavoro da presidente, basta vedere la levatura dell'allenatore che ha scelto e lo spettacolo che la squadra riesce a offrire su tutti i campi. Ma questo non mi impedisce di dire la mia su quello che è lo stadio Olimpico della Sardegna. Tale dovrebbe restare».
Anche se da anni mancano i grandi eventi alternativi alle partite del Cagliari?
«I grandi eventi non ci sono perché nessuno ha più voglia di organizzarli e perché ormai sarebbe anche impossibile farlo, vista la presenza delle tribune in tubi Innocenti sulle piste di atletica. Quello che andrebbe recuperato è lo spirito con il quale lo stadio è nato. Una casa per lo sport sardo, pensata per 65 mila potenziali spettatori. Perché, in occasioni di incontri di cartello, dev'essere vietato a qualcuno di assistere alla partita perché i posti sono esauriti?».
Ma gli stadi non sono sempre più vuoti perché sono troppo scomodi rispetto alla televisione, che ormai è la vera padrona del calcio?
«Questo è uno degli aspetti. Ma i dirigenti sportivi non possono pretendere di far soldi anche dagli incassi al botteghino. Sono già sufficientemente rimborsati dai soldi che arrivano dalle pay-tv».
La sua è una protesta contro la politica?
«Quando si fa il sindaco o il consigliere comunale ci si deve sforzare di fare veramente gli interessi di tutti. Nell'ultima delibera (del 24 novembre) la Giunta sostiene che lo stadio è inadeguato a ospitare manifestazioni calcisitiche. Perché non se ne sono mai accorti negli ultimi 15 anni? Non ho guerre da combattere con nessuno. Ma dirò la mia fino a quando avrò un filo di voce e qualcuno mi ascolterà».
I maligni dicono che lei sarebbe legato ai ricordi dei fasti del passato.
«Il libro dei ricordi non l'ho mai voluto aprire, non è nemmeno nelle mie disponibilità, ma in quelle dei miei familiari. Non ho un particolare legame affettivo con lo stadio Sant'Elia: è lì che mi sono procurato l'infortunio che mi ha costretto a dare l'addio al calcio (1 febbraio 1976, Cagliari-Milan)».
Neanche un ricordo bello?
«Due, uno da giocatore e uno da dirigente. Sono stato il primo a segnare un gol in partite ufficiali in quello stadio: era un Cagliari-Massese di coppa Italia (finì 4 a 1) e misi dentro una punizione da 30 metri. E poi uno da dirigente, l'anno della promozione dalla B alla A con il povero Tiddia in panchina. Nelle ultime partite registrammo sempre il tutto esaurito». ( a. mur. )

30/12/2009