Teatro. L'attualità di un classico contemporaneo
Delbono alla Vetreria di Pirri con una pièce di rabbie ed emozioni
Il mondo così com'è non piace a Pippo Delbono. Questo strano teatrante, però, si intenerisce davanti all'umanità. Quella più fragile, ai margini. La racconta, anzi, la assorbe. La cerca e la trova, senza compiacimenti. Come Bobò, meravigliosa farfalla che danza sul palco, puro stupore ai confini della normalità. Come Pepe Robledo, forse l'incontro più importante della sua esistenza. Ecco perché Delbono ha l'aria di un rabdomante malinconico, viaggiatore instancabile in un cerchio di affinità.
Dalle messinscene corali e più ambiziose ( Questo buio feroce , La menzogna sulla tragedia della Thyssen) fino ai pezzi storici, pure quelli che dovrebbero mostrare qualche ruga, affiora un'arte: strappare poesia alle cose della vita. Ruvida o delicata. Disperata o indignata. Ma sempre toccante. Sempre poesia. Anche con la cravatta e un ministeriale abito grigio chiaro, sul palco della Vetreria di Pirri. “Qualcuno di voi ha visto un pupazzetto?”, chiede Delbono alla platea. È la prima battuta del Tempo degli assassini ed è difficile capire come sarà questo spettacolo. Meglio, non-spettacolo. Le storie “hanno un inizio, una svolgimento, una fine”. Qui la storia è nelle impressioni di ciò che è stato già vissuto. Nelle emozioni di fatti privati e autentici, di ricordi forse mai metabolizzati. Il materiale sembra di scarto o di uso abusato: relitti della canzone italiana ( Pippo non lo sa...Carissimo Pinocchio... ), una danza dilettantesca, le comiche, le gag dei Blues Brothers, passi da mimo, sbiadite immagini di serie televisive. E minime acrobazie su una sedia, persino l'interazione (si dice oggi) col pubblico. Tutto alla rinfusa: dettagli che scoprono realtà, non simboli.
Anche Pepe Robledo veste elegante, con quella carnagione scura venuta da un'altra parte del mondo per incontrare un'anima gemella. “Due vite, una svolta” dice di sé e di Pippo. La sua affiora dalle lettere della sorella, che raccontano una dittatura bastarda e assassina in Argentina. Lui legge con pietà, poi urla parole di sofferenza incolmabile. Anche Delbono ha una storia da raccontare, ma sottotraccia, rievocata: un giovane incontrò un ragazzo e lo portò “sull'orlo dei precipizi”. Sesso, droga, un viaggio all'inferno. Il ragazzo avrebbe voluto ucciderlo e “finì che il giovane morì”. Anche Pippo aveva un amico, forse lo stesso. Ed è lui che ora saluta aprendo e stringendo le dita. Soffiando suoni sul collo di una bottiglia, rumore di navi ormai lontane. E allora, nella perdita e nella morte, le storie si incrociano e illuminano il titolo della messinscena, un verso di Rimbaud. Ha un senso anche la frase di Oscar Wilde detta e ripetuta: “Ognuno uccide ciò che ama”. Il maledetto e il dandy, altra gente che si è affacciata sul precipizio.
Delbono e Robledo si divertono a raccontare cose serie. Le cravatte diventano bende sugli occhi, Carissimo Pinocchio un ruggito in gola. Ma per poco. Riecco subito l'atmosfera da avanspettacolo, tra irresistibili dialoghi muti e abbozzi di convegnose riflessioni. Cosa potrebbe essere questo spettacolo? “Teatro-danza? Sperimentazione?”. Spruzzi di malizia e autoironia, ma anche l'eco di passioni ed esperienze. Lo spettacolo è il riassunto di un'epoca teatrale. Con un risultato: la “recitazione” è un concetto superato. L'arte è la vita.
Il tempo degli assassini ha 23 anni e 500 repliche: è giusto chiedersi come sta. Bene, è maturo e fresco. Forse non è nemmeno finito. Gran merito del Cada Die avercelo regalato insieme alla personale di un magnifico artista.
ROBERTO COSSU
17/11/2009