Addio a Michela Murgia: «Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite»
La scrittrice di Cabras Michela Murgia è morta a Roma. Aveva 51 anni. A maggio aveva rivelato al Corriere della Sera, in un’intervista ad Aldo Cazzullo, di avere un tumore al quarto stadio, con metastasi “già nei polmoni, nelle ossa, al cervello”.
La scrittrice, come riporta Rai News, aveva poi spiegato di aver deciso di sposarsi in articulo mortis e controvoglia, “perché lo Stato chiede un ruolo”. Mentre si sottoponeva a “immunoterapia a base di biofarmaci” per rallentare la malattia, Murgia aveva comprato una nuova casa “con dieci letti dove la mia famiglia queer può vivere insieme”.
Già nel 2014, quando era candidata alla presidenza della Regione Sardegna, le era stato diagnosticato un cancro al polmone. Allora non ne aveva parlato perché “non volevo pietà”. Ora il cancro “è partito dal rene, ma a causa del covid avevo trascurato i controlli”. “Non si torna indietro, ma non ho paura della morte”. Il suo nuovo libro, “Tre ciotole”, si apre con la diagnosi di un male incurabile. “È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa”, racconta.
Alla domanda di Cazzullo: la morte non le pare un’ingiustizia? aveva risposto: “No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi”.
Tra i suoi ultimi post, sui social, la critica alla decisione della Rai di cancellare dai palinsesti il programma di Roberto Saviano, Insider. Poi, qualche giorno dopo, il messaggio dall’ospedale, il sorriso e le cannule nasali dell’ossigeno, per aggiornare amici e fan sulle sue condizioni – “posso stare meglio, ma non bene” – e ringraziare della possibilità di curarsi, “in barba a chi demonizza chi paga le tasse”. Voleva “arrivare viva alla morte” Michela Murgia. E così ha fatto, senza rinunciare, fino alla fine, a prendere posizione, a far sentire la sua voce libera in favore dei diritti e di una società più inclusiva.
Anche le nozze con Lorenzo Terenzi sono state pubblicamente motivate come atto politico: “Lo abbiamo fatto controvoglia: se avessimo avuto un altro modo per garantirci i diritti a vicenda non saremmo mai ricorsi a uno strumento così patriarcale e limitato, che ci costringe a ridurre alla rappresentazione della coppia un’esperienza molto più ricca e forte, dove il numero 2 è il contrario di quello che siamo. Niente auguri, quindi, perché il rito che avremmo voluto ancora non esiste. Ma esisterà e vogliamo contribuire a farlo nascere”.
La vera festa è stata poi quella con la sua famiglia allargata, che lei definiva la sua “famiglia queer”: un lucido manifesto contro il patriarcato e le imposizioni del conformismo, del perbenismo. Con la sua famiglia di dieci persone, con i suoi quattro “figli d’anima” (il più grande di 35 anni, il più piccolo di 20), Murgia ha affrontato le ultime fasi della malattia: “Ma non chiamatemi guerriera, odio i militari”, aveva avvertito in un incontro pubblico all’ultimo Salone del Libro di Torino. “Se sono stanca di essere antagonista? In un Paese normale, civile, quello che faccio io lo fanno gli intellettuali e nessuno viene trascinato in tribunale”.
Nata a Cabras nel 1972, alle spalle una formazione cattolica, prima di dedicarsi alla scrittura Michela Murgia ha svolto diverse attività: dalla sua esperienza come venditrice telefonica è nato Il mondo deve sapere (2006), romanzo tragicomico sul mondo dei call center, che ha ispirato l’opera teatrale omonima e il film Tutta la vita davanti (2008). Molto legata alla sua terra, nel 2006 ha dato vita al blog Il mio Sinis per raccontarne i luoghi meno noti. Nel 2008 aveva firmato Viaggio in Sardegna (2008).
Due anni dopo è uscito Accabadora, premio Super Mondello e premio Campiello, considerato il suo capolavoro, storia di un’anziana donna che in un villaggio sardo dà di nascosto la morte ai malati gravissimi che gliela chiedono e di una bambina che la donna adotta e che scopre a poco a poco il vero scopo delle uscite notturne della madre adottiva. Nel 2011 Ave Mary, riflessione senza filtri sul ruolo della donna nel contesto cattolico.
Tra le sue opere successive il saggio breve sul femminicidio L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!; e ancora Futuro interiore, L’inferno è una buona memoria, il saggio Istruzioni per diventare fascisti, Noi siamo tempesta. Storie senza eroe che hanno cambiato il mondo. Stai zitta, God save the queer. Catechismo femminista e infine l’ultimo Tre ciotole – Rituali per un anno di crisi: un romanzo che si apriva sulla diagnosi di cancro, un romanzo fatto di storie che si incastrano e in cui i protagonisti stanno attraversando un cambiamento radicale che costringe ciascuno di loro a forme inedite di sopravvivenza emotiva.