Teatro. Stasera al Massimo per il Cedac la prima rappresentazione, l'ultima sarà domenica pomeriggio
Lavia a Cagliari con il dramma di Shakespeare
«Non mi faccia, la supplico, anche lei quella domanda. Non. Me. La. Faccia. Lah... scongiuroh».
È ora di pranzo già da un pezzo ma la voce non smonta dal palcoscenico. È un timbro drammatico in servizio permanente e quindi eccolo che freme, si incupisce angosciato e poi si fa quasi carezzevole nell'implorazione: «Sul serio, non mi domandi Perché Shakespeare? ».
Non chiedetegli perché ma Gabriele Lavia - attore e regista, uno degli uomini di teatro italiani più significativi - porta Shakespeare a Cagliari.
Da stasera alle 21 fino a domenica alle 19 (prevista anche una pomeridiana domani alle 17), sul palco del Teatro Massimo, la Compagnia Lavia Anagni metterà in scena per il circuito Cedac il Macbeth , la tragedia di un uomo sedotto e rovinato dal potere. La corona di carta dorata del sovrano usurpatore la cingerà lui, regista e capocomico. Quella della sua consorte, spietata e arrivista, spetta a Giovanna Di Rauso, mentre Selene Rosiello, Chiara Degani e Giulia Galiani danno corpo alle Streghe, gelide e sensuali, Malcom è Patrizio Cigliano.
L'allestimento - giocato tra gli essenziali scenari della corte scozzese e i riferimenti espliciti alla teatralità delle vicende rappresentate - è sobriamente al servizio di un testo classico e potentissimo, di gran nome e cattiva fama.
È vero che il Macbeth porta jella?
«Bah, c'è una leggenda che vuole così. Una malignità nata nel teatro inglese e legata al buio, al mondo infero nel quale si muove questa tragedia. Un mondo dove costantemente qualcosa è preso per qualcos'altro, dove le Streghe dicono che “è brutto il bello, è bello il brutto”. E in questo mondo di errore, il travisamento porta il povero Macbeth alla distruzione».
Nel testo che annuncia la rappresentazione, lei descrive il re come un uomo truccato, con i tacchi rialzati e i doppiopetti esasperati. Che fa, la butta in politica?
«Ma noi viviamo in una polis. E quindi in un polo: Platone immaginava un polo dove gli uomini fossero guidati dall'amore per il sapere, noi invece viviamo nel polo dove siamo stati gettati. Non sempre il mondo in cui sei stato gettato è quello che può farti sentire a tuo agio: in genere l'artista si trova a disagio nel suo mondo e l'arte è solo un modo per raccontarlo, questo disagio».
Per tornare alla domanda indicibile: mette in scena Shakespeare perché con i suoi temi eterni le fa distogliere lo sguardo dal mondo contemporaneo?
«Sì. In fondo questa è la storia di un uomo che non avendo certezza di essere , è condannato a fare . “Farò, farò...” ripetono le Streghe: in effetti “fare” e “mano” sono le parole più ricorrenti nel Macbeth. Pensiamo ai politici che parlano di “politica del fare”, che si imbottiscono la giacca perché non essendo di spalle larghe fanno quelli con le spalle larghe, si fanno alti...».
Torniamo sempre lì?
«Ma è il testo che dice queste cose, è nel testo che troviamo battute come quella sulla veste del gigante indossata da un ladro nano: bisogna davvero essere un genio per scrivere una battuta come questa, che suona così tragica alle orecchie dei contemporanei».
Oltre al teatro lei ha frequentato il cinema, in particolare quello di Dario Argento: c'è dell'horror nel suo Macbeth?
«Certo: non può che fare orrore lo spettacolo di un uomo condannato ad agire per farsi potente, un uomo che sapendo di non essere è costretto a fare. Un uomo meschino, che si è impossessato di una corona strappandola dalla testa di un altro e quindi non è divenuto sovrano per discendenza verticale, secondo la successione medievale. Costretto a fare il re, è come un attore che interpreta un ruolo troppo alto. E quindi scimmiotta, imita, fa ciò che può. E lo fa male perché non sa fare il re, sbroccola, infila una gaffe dopo l'altra davanti ai suoi cortigiani. E non siede mai sul trono. Nella scena del banchetto i cortigiani gli chiedono perché non occupa il posto che gli spetta e lui rifiuta: starò tra voi come l'ultimo degli ospiti, dice. E lo dice perché sa di essere un abusivo. Che abusa».
Per questo nell'allestimento si vedono un camerino, un baule con oggetti di scena: Macbeth attore più che uomo di potere?
«Sì, la messinscena allude alla metateatralità, alla storia di ciò che il pubblico vede: due persone che sono condannate a recitare nel ruolo del re, ma dietro le quinte vivono la loro vita squallida come i camerini teatrali, con la loro puzza invincibile».
I camerini del Massimo no: lo hanno appena rifatto.
«Bene».
CELESTINO TABASSO
11/11/2009