Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Acconci e la poetica delle macerie

Fonte: La Nuova Sardegna
4 giugno 2008

MERCOLEDÌ, 04 GIUGNO 2008

Pagina 38 - Cultura e Spettacoli

Autore di uno dei progetti più originali ed audaci di ricostruzione del World Trade Center


A «Festarch» la lezione magistrale del grande architetto


Recupero di vivibilità dalla distruzione Le ricostruzioni non devono cancellare le rovine, ma su queste rinascere

ROBERTO PARACCHINI
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Una città come New York: una banchina abbandonata e un uomo che ogni notte, dall’una alle due, vi si reca per incontrare altre persone trovate casualmente. E a questi sconosciuti racconta la propria vita scavando impietosamente nel proprio intimo tanto che, se l’altro volesse, potrebbe benissimo ricattarlo. È il 1974 e Vito Acconci, un signore neworkese nato 34 anni prima da genitori di origine italiana, è già noto per le sue perfomance, che ne fanno un artista di punta del movimento concettuale e della body-art in particolare. In precedenza, in importanti gallerie d’arte, aveva mostrato foto del suo corpo nudo e raggomitolato, realizzato video in diretta mentre si masturba e costruito situazioni in cui il pubblico può impartirgli degli ordini. E in un’altra performance aveva lasciato l’impronta dei suoi denti su tutte le parti del corpo raggiungibili dalla sua bocca, per poi colorarle.
In un altro tempo, in un ex magazzino dove decenni fa venivano imballate le sigarette, all’interno dell’ex manifattura tabacchi, nel centro di Cagliari: lo stesso signore, coi capelli disordinati e una faccia scavata e gentile, mostra una serie di diapositive che raccontano, tra le altre cose, di una sorta di nuvola adagiata sull’acqua di un fiume, di cui ne collega le sponde. A Graz, in Austria, il fiume Mur separa di fatto la città. E quella nuvola simbolicamente la ri-unisce con un percorso che contiene un bar, un teatro e un’area giochi per bambini. Siamo nel 2008 e Acconci sta tenendo una «lezione magistrale» nell’ultimo giorno di Festarch, il festival internazione dell’architettura che si è concluso domenica nell’ex manifattura.
Poche ore prima, in un altro padiglione l’artista e scrittore Hans Ulrich Obrist aveva tenuto una maratona di interviste con un ampio gruppo di narratori: una macedonia di stili da Luc Sante a Tom McCarty, da Peter Serville a Marcello Folis, da Rick Moody a Michela Murgia e Vito Acconci. Quest’ultimo aveva esordito come narratore: nel 1960 scriveva racconti, ma quello che della parola lo interessava di più non era il significato semantico, ma la posizione nello spazio della pagina. Poi vi sono state le arti visive, le performance e le intallazioni, infine l’approdo all’architettura con l’Acconci Studio. La parola che si fa corpo e l’arte che diventa luogo di vita: progettata, certamente, ma in modo tale che chi vive questi spazi possa anche modellarli e trasformali, come quel marciapiede ideato per un sottopassaggio che, di notte, irradia sulle persone mille luci puntiformi mobili, che seguono il movimento del passante come se fossero tante lucciole. O come quella sala d’aspetto di un aereoporto in cui le pareti, di materiale quasi trasparente e malleabile, sono realizzate con spazi concavi e convessi che diventano sedili o sporgenze a seconda della parte divisoria in cui ci si trova. O come quel giardino artificale i cui alti steli, collegati a dei sensori, si aprono e chiudono a seconda del nostro cammino.
Ma perché affidare ad Acconci la lezione magistrale di chiusura di Festarch? «Perché in lui - ha spiegato Stefano Boeri, il direttore del festival, assieme a Gianluigi Ricuperati - si compendiano molto bene gli ultimi trent’anni di vita artistica internazionale: un percorso che arriva all’architettura partendo dalla narrativa». Una suggestione che realizza il sogno di tanti scrittori di lasciare un segno forte sulla realtà, e che altri hanno realizzato con modalità differenti (e più tradizionali), come Italo Calvino con «Le città invisibili» (Einaudi), opera citatissima dagli urbanisti per l’idea di reticolo, sovrapposione di percorsi e di città possibili. O come William Gibson che in «Giù nel cibespazio» (Mondadori) ha aperto un’epoca: libro in cui si respirano le atmosfere del film «Blade Runner», pellicola citata anche da Acconci.
Ma il nostro tempo è un periodo in cui, tra le cifre stilistiche, è molto presente pure quella del degrado e della distruzione. E dove, come scriveva Walter Benjamin bisognerà «creare storia con gli stessi detriti della storia» («Angelus Novus», Einaudi). Da qui il progetto di Acconci per un nuovo World Trade Center: un enorme edificio pieno di buchi e lacerazioni, «come se nascesse già bombardato», ha spiegato Acconci a Festarch. Ma con all’interno anche spazi verdi e tunnel: un simbolico recupero di vivibilità dalla distruzione.
Per l’artista-architetto neworkese le ricostruzioni non devono cancellare le rovine, ma su queste rinascere. Ed è per questo che tra i suoi concetti privilegiati c’è oggi quello del «parassita», e così un vecchio edificio viene ricoperto da un rivestimeno mobile che crea nuove possiblità di fruizione anche dall’interno. Uno dei motivi del passaggio di Acconci all’architettura deriva dal fatto che lui voleva creare situazioni non da vedere, ma da vivere. «Ricordo che avevo creato specie di mobili - ha raccontato a Festarch - ma la galleria che gli espose non voleva che il pubblico li usasse come tali. Io invece sì. Allora trattavo le sale del museo come se fossero spazi urbani, ma era solo una simulazione. Mentre l’architettura è l’arte della vita quotidiana».
Oggi le opere di Acconci non coinvolgono più il suo corpo, ma quello del collettivo che ne viene a contatto. E che, in questo modo, in parte lo ri-costruisce. Non più ambienti fascinosi da vedere soltanto ammirandoli come arredo urbano ma architetture che, vivendole, si trasformano e si fanno manipolare. Una impostazione che ha fatto convergere l’Acconci Studio pure verso la topologia (quel settore della matematica che studia le torsioni degli oggetti, mantenendone le caratteristiche specifiche). Un esempio è il divano di Moebius (figura che nasce da un nastro che - dopo una torsione di 180 gradi - permette di essere percorso in tutta la sua estensione con un dito che non si solleva mai dalla superficie): realizzazione multiuso che sviluppa i concetti di torsione, capovolgimento, inversione di esterno e interno, e dispiegamento. Tutte chiavi di lettura, infine, per un Acconci Studio che progetta spazi di vita nutrendosi anche dei dei mille scarti della contemporaneità. Come un grido ottimista.