La nuova frontiera dei social: il progetto made in Sardinia “Selfcommunity”
Le nostre vite viaggiano online da molto più di un decennio. I nostri profili digitali
sono ovunque, su Google e soprattutto sulle piattaforme social. Sono proprio le
grandi aziende tecnologiche ad avere, molto più di noi, il controllo dei dati, ovvero
tutta quella mole di informazioni che condividiamo, e di azioni che facciamo sul
web. E a rivenderle per monetizzare in primis il nostro tempo. Dalla questione
della privacy ai big data, da qualche anno si è aperta una riflessione generale che
coinvolge gli addetti ai lavori e non.
Ha base in Sardegna ma clienti ovunque un’azienda che ha sviluppato una
piattaforma capace di offrire un social network proprietario e all’interno del quale i dati
restano di proprietà dei loro clienti. Abbiamo quindi fatto due chiacchere con
Mariano Pireddu, Ceo di SelfCommunity.
Mariano, prima di tutto, da quali esperienze provieni?
Sono stato testimone della nascita di Internet. Ho avviato le mie prime
collaborazioni in questo ambito in Repubblica Ceca con l’imprenditore Renato
Soru, in quello che al tempo forse era il progetto Internet più avanzato dell’epoca,
la famosa Video On Line lanciata da Nicola Grauso in Italia, dopodichè con alcuni
soci abbiamo creato delle vere e proprie società di telecomunicazioni in Slovenia e
Croazia. Successivamente sono rientrato in Italia e da alcuni anni mi occupo del
progetto SelfCommunity.
Come nasce l’idea di SelfCommunity?
Si tratta di un progetto che mi sta appassionando moltissimo, utile e sfidante.
Siamo partiti da un assunto: oggi la maggior parte delle aziende è presente sui social
ma non controlla i meccanismi di funzionamento di queste piattaforme, né ha
alcun accesso ai dati. Con SelfCommunity diamo invece la possibilità a imprese e
organizzazioni di utilizzare uno strumento che unisce le caratteristiche dei social
con una tecnologia che permette al cliente di costruire una propria community
all’interno di una piattaforma unica e personalizzabile. Il cliente è il solo
proprietario dei dati presenti sulla piattaforma.
Quindi non potete far profitto dalla vendita dei dati…
No, e sembra paradossale in questo momento storico. I nostri clienti pagano un
canone mensile per la nostra soluzione social, la quale può essere integrata su
sistemi digitali esterni, siti e-commerce etc. L’azienda può dunque concentrarsi
sulla costruzione di una brand experience personalizzata, contando di avere la
totale visibilità organica sui contenuti, un sistema di analisi dati e di marketing
tools, oltre al già menzionato controllo dei flussi e dei dati. In questo modo si
migliora il coinvolgimento degli utenti interessati e si rafforza la fedeltà a un
marchio o un prodotto. Si può fare formazione e veicolare una comunicazione più
efficace. In due parole, si sviluppa una vera e propria comunità di cui beneficiano
tutti.
Chi sono i vostri clienti ad oggi?
Ne abbiamo diversi, alcuni esempi riguardano la filiale italiana di una
multinazionale giapponese leader nel settore della cyber security, ma anche
un’azienda che organizza eventi online nel settore della salute. Abbiamo inoltre
implementato la nostra soluzione all’interno del principale eCommerce italiano
dedicato ai libri e alla lettura, che ha integrato nel suo sistema la componente di
community di lettori, molto seguita e partecipata.
La vostra azienda è anche un modello dal punto di vista dello smart working…
SelfCommunity è nata nel 2017 e annovera ad oggi dodici persone coinvolte, tra
dipendenti e collaboratori. Lavoriamo da remoto: la direzione si trova a Oristano, i
developers stanno in Veneto e provengono principalmente dall’università di
Padova, lo staff dedicato all’infrastruttura è a Cagliari, mentre l’area commerciale e
marketing lavora tra Oristano e Milano. Non ci sono ostacoli quando si trova il
team giusto, è il bello di Internet.
Qual è la vostra missione?
La stessa di gran parte delle aziende tecnologiche, cioè semplificare la vita dei
nostri clienti, essere in grado di dare a loro le migliori soluzioni e consegnare
strumenti utili per il proprio lavoro. Cerchiamo di farlo in Italia e uno dei motivi è
questo: tra i migliori softwaristi al mondo, ci sono, a parer mio, gli italiani.