Lirica. Uomo di teatro, cinema, radio, televisione, e regista del capolavoro donizettiano
«Non sopporto i registi improvvisati, quelli che non conoscono la Storia»
« Ci salverà la bellezza, e il senso del ridicolo», avverte, mentre lascia la sala regia per affrontare, nel foyer di platea del Lirico di Cagliari, il pubblico accorso alla presentazione del suo “malincomico” Elisir d'amore . Pochi piani separano i due luoghi: sufficienti a Michele Mirabella per uscire dai panni amabili, ma quasi austeri, della sua chiacchierata sull'opera, ed entrare in quelli più leggeri del bravo presentatore. La conoscenza di ciò che dice è la stessa, cambia il modo. Applaudito da un pubblico in gran parte femminile che lo segue da quarant'anni alla radio e in televisione, il Professore tiene una conferenza che mischia con equilibrio i registri del colto, del divertente, dell'aneddotico, giocando sulle sue indubbie capacità da guitto. Scherza con la signora in prima fila che veste di viola, e spiega il perché della superstizione: «Sotto Quaresima i teatranti non lavoravano e quindi facevano la fame». Disquisisce sugli auguri da fare agli artisti: «“Buona fortuna” mai, “in bocca al lupo” sì, ma ancor meglio “tanta merda”»: quando se ne trovava in abbondanza, davanti ai teatri, significava che c'erano molti cavalli, molte carrozze e di conseguenza molto pubblico. Infine passa al capolavoro donizettiano, con dotte disquisizioni sull'epoca storica, sul personaggio moderno di Adina («la sua ava è Mirandolina»), sul ruolo di Dulcamara.
È un uomo generoso, Mirabella, e da bravo capocomico cita e loda tutti coloro che lavorano con lui a quest'opera: l'intero Lirico, l'assistente alla regia Antonio Petris («bravo e giovane: non è paternalismo il mio, è invidia»), la costumista Alida Cappellini, il datore luci Franco Ferrari, (tutti presenti in sala). Unico assente, lo scenografo di origini ghilarzesi Giovanni Licheri. Che è anche marito della Cappellini e - udite rustici - «figlio del giudice Santi Licheri». Ohhhhh!!! mormora il pubblico e il regista non perde l'occasione per sottolineare la spontaneità della provincia italiana, per condire di nuovi racconti la sua anomala conferenza. È lui a ricordare il parallelo tra la sua trasmissione più seguita, Elisir , e il capolavoro donizettiano. Lui a far accennare in diretta Come Paride vezzoso ) al Belcore del secondo cast, Fabio Previati. Sempre lui a chiudere la conferenza con un manzoniano «scusateci se non lo abbiamo detto bene».
Un bell'anticipo di applausi per questo Elisir d'amore che torna a Cagliari dopo undici anni. Allora scene e costumi erano di Emanuele Luzzati-Santuzza Calì, ma non sembra meno stimolante l'accoppiata Licheri-Cappellini. E non è un caso che il regista preferisca al camerino la sartoria del Lirico, per mostrare i sogni di stoffa disegnati dalla creatività di Alida Cappellini e realizzati con maestria nel laboratorio di via Santa Alenixedda. È un nuovo allestimento, questo, che niente ha a che vedere con L'Elisir di quattro anni fa al Verdi di Sassari dello stesso Mirabella. «Riprendeva quello proposto dal teatro di Jesi, era una dignitosissima messinscena, ma i mezzi a disposizioni erano modesti. Non che ora si nuoti nell'oro, è un disastro». E racconta della sfida di avere davanti a sé un teatro vuoto e una pagina bianca, da riempire di idee. «Quando lavoravo all'allestimento mi dicevo: ah, se potessi! Ecco ora posso. Posso occuparmi come mi piace di Donizetti, così romantico, col suo caravaserraglio meraviglioso di rivolte teatrali».
Il suo, spiega, è un allestimento rigorosamente filologico. «Nel senso della collocazione storica e dell'invenzione teatrale. Fatto non con occhi della cupa e pigra ripetitività ma con cuori e orecchie della modernità». Si crea così, tra l'uomo di oggi e gli autori di ieri (in questo caso Felice Romani e Gaetano Donizetti), una dialettica miracolosa. «È la forza generatrice della storia, il racconto del passato». Si lamenta dell'imperversare di registi che non conoscendo storia, filosofia, storia dell'arte, si inventano costruzioni prive di senso. «Per dirigere L'Elisir devi conoscere i moti del 1820 e del 1821, del '30 e del '31, devi sapere che incombe il '48, che la plebe contadina si sta riscattando, che l'urbanizzazione spopolerà le campagne, e che le campagne sono una forma di nostalgia... Gramsci era sardo eh!». Passa con voli arditi e affascinanti dai jeux de mots del passato a Totò. Cita Cervantes, il suo mondo capovolto. «Per capire il Don Chisciotte devi partire da quel mondo, diceva il filosofo Unamuno. E io dico che per capire i romanzi di Grazia Deledda bisogna conoscere lo scavo nella roccia sarda della sua lingua. Tutto si coglie, se sai la Storia».
Ammette con fierezza, il regista pugliese di Bitonto, di appartenere alla vecchia scuola, quella che ti porta a impicciarti di tutto: «Io non so fare tutto, ma so come si fa. E so quanto lavoro ci sia in queste tane della creatività dove si gioca a fare sul serio. Qui si costruiscono i sogni. Ecco perché sto così attento a una imbastitura. Vedrà cosa hanno combinato di fantastico».
Lei ha fatto di tutto. Quale forma d'arte preferisce?
«Il teatro, il palcoscenico, il sipario che si apre (musica o prosa è secondario)».
Che cosa le manca di fare?
«Un viaggio intorno al mondo. Un'interminabile crociera dove mi possa portare a rimorchio il guardaroba - io viaggio con i bauli - e il cibo all'italiana. Amici? Maurizio Micheli e Renzo Arbore su tutti».
Non fosse nato negli anni Quaranta del Novecento chi avrebbe voluto essere?
«Un tempo avrei detto il segretario di Voltaire a Sans-Souci, per suonare con Federico II di Prussia, poi come lei ben sa mi sono documentato e ho scoperto che si moriva presto, di vaiolo, di tutto. E allora meglio ora. Oppure sì, allora, ma solo per un quarto d'ora. Giusto il tempo di godere, magari, della prima esecuzione del secondo movimento del Concerto per clarinetto di Mozart K 622».
Che cosa salverà il mondo?
«La bellezza, lo dice Dostoevskij. E il senso del ridicolo, il sentimento del contrario. Pensi alla televisione. Quanti dittatori ci ha risparmiato, mostrandoceli».
Non sempre, non tutti...
«Lei l'ha detto. Ma comunque ci mette nelle condizione di vedere. Non è poco».
Mirabella si avvia alla conferenza, passando per il bar. Ordina un caffé, ne offre un altro, ne lascia un terzo “sospeso”. E spiega che nella nobile tradizione napoletana “il sospeso” è destinato a uno sconosciuto che non può permetterselo. Anche questa è storia.
MARIA PAOLA MASALA
20/10/2009