“La cultura è un impegno civile | La paesitudine chi non ce l’ha non se la può dare”
Intervista con Antioco Floris: "L’intellettuale non può essere un tuttologo, uno che è pronto a dire la sua su tutto come se fosse dotato di un sapere illimitato. La tuttologia delegittima il valore e assimila l’intellettuale ai cittadini comuni che sui social disquisiscono di economia come di fisica. Che fare? La prima cosa è una capillare campagna formativa che coinvolga tutti i livelli dell’istruzione dalla prima infanzia all’università"
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Antioco Floris, Ordinario di Cinema, fotografia, televisione e media digitali all’Università di Cagliari, per quanto l’etichetta gli provochi l’orticaria è un intellettuale: impegnato, come si diceva negli anni Settanta, in attività militante permanente. Il suo impegno, che passa dalle lezioni dell’ateneo ai saggi e ai film-documentario, è una missione che porta una consapevolezza: il rigore morale è condizione indispensabile dell’esistenza. Non solo personale ma soprattutto collettiva. Rigore che risulta evidente nel suo lavoro e arriva dritto dalle sue parole, sempre ricche di significato e spesso permeate da un filo di costante, pungente, originalissimo sarcasmo.
Antioco, partiamo da un accenno biografico. Mi racconti qualcosa di te, di dove sei e della tua infanzia? E mi dici chi sei, oggi?
Sono nato nel 1963 a Cagliari, di passaggio, da una famiglia di Busachi nell’interno della Sardegna. Lì ho trascorso l’infanzia e la prima adolescenza fino al 1977, quando sono rientrato a Cagliari per frequentare il liceo classico Siotto. L’anno dopo muore improvvisamente mio padre e per me è un colpo durissimo. Presa la maturità mi iscrivo a Filosofia. Gli studi universitari li ho frequentati da studente lavoratore alternando la vita in Sardegna e all’estero (ho vissuto circa due anni a Berlino, dove ho lavorato come salumiere, ma anche a Colonia, Liegi, Amsterdam, Praga, Parigi, la Germania Est). Già nell’84 ho iniziato a frequentare la Cineteca Sarda dove ho lavorato, fra una cosa e l’altra, fino al ’98. Qui, alla scuola di Fabio Masala e Salvatore Pinna, ho imparato a concepire il lavoro culturale prima di tutto come un impegno civile, aspetto che caratterizza ancora il mio lavoro all’università. Intanto nel 1987 fondo l’associazione Tredicilune che per una decina d’anni è stata l’essenziale punto di riferimento cagliaritano del cinema d’essai.
Il mio primo libro, fatto con Paola Ugo, esce nel 1990: “Facciamoci del male. Il cinema di Nanni Moretti”. Avevo 27 anni e vivevo sorpreso un risultato che non capivo. Il libro, recensito in anteprima da importanti settimanali e quotidiani nazionali, aveva esaurito la prima tiratura con le prenotazioni senza neanche arrivare in libreria. A fine anno il quotidiano “La Stampa” lo segnalava come uno dei dieci più importanti libri di cinema pubblicati in Italia quell’anno, accanto c’erano le opere di Bergman, Woody Allen, Ejzenstejn… Era un segno di ciò che avrei dovuto fare nella vita?
La laurea, con una tesi in Storia del cinema e il massimo dei voti, mi ha portato a collaborare con l’università e al precariato che però non potevo permettermi. Dopo alcuni anni faticosissimi in cui cercavo di conciliare la ricerca con il lavoro dormendo poche ore la notte, ormai rassegnato faccio un concorso in Regione e finisco a coordinare le attività culturali dell’ERSU di Cagliari, incarico che abbino a una supplenza esterna all’università. All’ERSU invento il cinetreatro Nanni Loy, un centro culturale molto attivo in cui passano musicisti, cineasti e artisti come Dario Fo, Enrico Rava, Paolo Fresu, ma anche giovani che poi diventeranno noti intellettuali e politici. Nel 2002, per gli strani casi della vita, all’università finalmente si convincono a bandire due posti per ricercatore in cinema, dei quali uno è vinto da me. Ho 39 anni e inizio un nuovo lavoro dopo averne fatto davvero tanti.
All’università porto con me uno stile professionale poco accademico, sempre aperto a partecipare alla vita culturale nel territorio. Le capacità organizzative e la dimestichezza nel reperire risorse mi permettono di impostare una didattica di tipo attivo, laboratoriale e in stretto rapporto con professionisti e organizzazioni esterne. Creo un laboratorio e fondo il CELCAM, un centro di ricerca e formazione che propone iniziative seguite con entusiasmo da tanti giovani. Per la formazione coinvolgo registi e professionisti, realizzando documentari e cortometraggi alcuni dei quali arrivano addirittura al Festival di Venezia e sono distribuiti in rassegne all’estero. Il culmine pochi anni fa, quando la rettrice Maria Del Zompo riconosce il valore del nostro lavoro e istituisce uno specifico corso di laurea magistrale in produzione multimediale.
Dopo aver fatto la “gavetta” per anni come ricercatore, ora all’università sono professore ordinario. Alla formazione unisco la ricerca rivolta principalmente a tre filoni: il cinema in Sardegna e le tematiche dell’identità nel cinema locale, la formazione al cinema e all’audiovisivo, il cinema nel Terzo Reich e l’uso dell’audiovisivo per la produzione del consenso. Su questi temi ho scritto numerosi saggi e ho presentato relazioni in convegni in Italia e all’estero. Faccio una vita semplice divisa fra il lavoro, sempre molto, e la famiglia con mia moglie, una figlia e un figlio. La passione principale è viaggiare.
Come è cambiata l’Isola negli ultimi trent’anni?
Nel 1987, dopo aver trascorso circa due anni a Berlino, mi sono trovato a scegliere se rimanere in Germania o tornare in Sardegna. Lasciare una delle città più fertili culturalmente al mondo o tornare all’estrema periferia dove per un giovane come me non c’era quasi niente. Ho scelto di rientrare con lo spirito di chi aveva voglia di costruire. Quello che noto a posteriori e che questa voglia di costruire una Sardegna culturalmente diversa evidentemente non era solo mia in quanto nell’arco di pochi anni l’sola si è animata di una vita culturale veramente ricca, ben evidente già a metà anni Novanta, portando Goffredo Fofi a definirla Nouvelle vague sarda. Difficile sintetizzare nello spazio di un’intervista una riflessione approfondita, ma credo che il risultato di questo straordinario fenomeno sia da collegare a un modo nuovo di sentirsi protagonisti della vita della propria terra, riconoscere che delle specificità culturali potevano permettere di avvicinarsi alla cultura globale con un punto di vista proprio. E questo non ha riguardato esclusivamente chi pratica le professioni creative, ma anche intellettuali e operatori culturali che creano le situazioni perché la creatività possa esprimersi. Una vita culturale a tratti molto raffinata, a tratti più popolare e di massa, ma sempre con una sua personalità. Chi ci guarda da fuori, lo vedo nel mio ambiente di lavoro, trova la nostra realtà molto interessante. Spesso con una certa retorica si è parlato di affermazione dell’identità di un popolo, è un’espressione ambigua e personalmente l’idea di identità del popolo sardo la prendo con le pinze, ma di certo c’è una componente che ha associato tante persone verso un interesse comune non sempre del tutto consapevole e intenzionale. E oggi abbiamo un territorio oggettivamente molto ricco in termini culturali. E sarebbe una risorsa straordinaria se avessimo anche una classe politica capace di valorizzarlo.
Riprendiamo il filo del discorso sul ruolo degli intellettuali in Sardegna. Chi sono, e che cosa possono fare, gli intellettuali nel mondo grande e terribile di oggi?
Non credo che gli intellettuali in Sardegna abbiano delle peculiarità che li distinguono da quelli italiani. Siamo figli di una società globalizzata che ci porta ad avere i medesimi problemi, magari con dettagli locali, ma non tali da creare delle specificità. La questione di fondo, secondo me, in un mondo pieno di intellettuali, è la qualità, la profondità, la sistematicità e la capacità di incidere. Perché il compito dell’intellettuale è quello di interpretare il presente e offrire degli stimoli per leggerlo con un approccio critico e consapevole, e soprattutto competente perché senza competenza non ci può essere consapevolezza né sana critica. Ma la critica non deve essere intesa come un parere contro, la critica nella sua accezione più profonda è un momento della conoscenza in cui qualcosa si osserva con approfondimento e attenzione usando specifici strumenti di cui si deve essere padroni. Ecco perché l’intellettuale non può essere un tuttologo, uno che è pronto a dire la sua su tutto come se fosse dotato di un sapere illimitato. La tuttologia, pratica talvolta diffusa nelle redazioni giornalistiche per mano di figure chiamate col nome altisonante di opinionisti, delegittima il valore e assimila l’intellettuale ai cittadini comuni che sui social disquisiscono di economia come di fisica, di vaccini come di ingegneria edile. L’intellettuale se vuol svolgere un ruolo autorevole, oltre a capire qual è il suo ambito di intervento, deve anche essere sobrio evitando prese di posizione plateali o polemiche a tutti i costi. Oggi, sul modello dei salotti televisivi, è di moda che l’intellettuale debba essere “contro” e questo comporta che ci si aspetti da lui in primis una vis polemica a cui, peraltro, alcuni intellettuali non riescono a sottrarsi collocandosi nella sola pars destruens della riflessione critica, quando non nel mero contrasto fine a se stesso. Purtroppo questo accade frequentemente con delle implicazioni che sono deleterie perché rendono il ruolo dell’intellettuale del tutto inutile, se non dannoso, in quanto si creano modelli negativi in cui l’aggressività è la base della discussione in luogo del ragionamento e dell’argomentazione.
Ritengo invece che l’intellettuale debba riuscire a fare il passo ulteriore portando la riflessione verso la pars costruens, quella più complessa. Non voglio con questo dire che l’intellettuale deve sostituirsi al politico per gestire la cosa pubblica, per quanto può essere legittimo che lo faccia modificando il proprio ruolo, piuttosto che deve dare stimoli perché il politico responsabile, il cittadino maturo, il giovane che cresce sviluppino una certa sensibilità.
E allora la forza e il valore non sta nell’essere contro, ma nell’essere autorevoli e credibili, nell’offrire quella prospettiva forte che l’essere intellettuale ti permette di elaborare. Certo, oggi non è semplice in quanto il diritto di parola esercitato quotidianamente da tutti nei vari canali di comunicazione accessibili senza limitazioni rende davvero complesso distinguere l’autorevolezza di chi parla con cognizione da chi invece esprime pareri “a naso” perché ha una tastiera davanti o è pagato per farlo, ma credo che la sfida sia proprio qui.
La Sardegna da questo punto di vista non fa eccezione e vi ritroviamo le tipologie di intellettuali presenti fuori: voci autorevoli capaci di dare contributi importanti, tuttologi, polemisti fini a se stessi, pseudointellettuali. E la difficoltà di discernere non sempre è facile. Di fronte a questi c’è una grande quantità di intellettuali universitari che sceglie di svolgere in proprio ruolo fuori dalla vita sociale, limitandosi a proporre le proprie ricerche nei ristretti e selettivi canali dell’accademia come se l’apertura all’esterno fosse in qualche modo squalificante o non importante. E sul perché si scelga di far ciò bisognerebbe interrogarsi.
In realtà il tema è diventato più profondo: da dove si può ripartire per far germogliare un’Isola che viaggia a due velocita? Da un lato le città, connesse e globalizzate, dall’altro i paesi, sempre più piccoli e sempre più confinati in quelle che sembrano delle riserve culturali, slegate dal progresso e dalla storia…
Il problema delle “velocità” della Sardegna non mi sembra che al momento richieda grande impegno intellettuale dato che è, alla base, di natura economica e politica, e solo per effetto sociale e culturale.
La differenza sostanziale fra i grandi centri urbani e i piccoli paesi è prima di tutto legata a condizioni di vivibilità. Non è che al mio paese si viva in un determinato modo perché si vuole essere diversi dalla città e quindi si sceglie di non avere i collegamenti internet superveloci permessi dalla fibra ottica perché si privilegiano i ritmi lenti del passato, o di non avere attività produttive perché si vuole salvaguardare un’economia di sussistenza, o di non avere le scuole perché si vuole imitare Don Milani ecc. No, non è così. Il fatto è che paghiamo il prezzo di scelte politiche sbagliate sin dai tempi del Piano di Rinascita reiterate ancora oggi.
Quando dal paese ci spostiamo per studiare in città se torniamo non troviamo lavoro, e chi non si è spostato per studiare deve comunque emigrare. L’anno in cui sono nato io a Busachi sono nati una cinquantina di bambini, quanti di questi una volta cresciuti sono rimasti là? La maggior parte si è spostata e non certo perché come me insofferenti agli ambienti ristretti, piuttosto per necessità lavorative.
Oggi le tecnologie multimediali e telematiche permetterebbero di fare politiche di decentramento amministrativo e produttivo, ma sentendo le dichiarazioni recenti di qualche ministro la prospettiva non è certo rosea.
Forse ha ragione Biolchini: cominciamo a dire che nei paesi c’è qualcosa che non va, e che la paesitudine è un valore solo se sa guardare al futuro e non si ferma a su connottu?
Ho difficoltà ad affrontare la questione in questi termini. La paesitudine, per usare questa parola che non mi piace, può diventare un valore o meno se rapportata a specifiche condizioni di vita altrimenti rischia di essere solo retorica o prospettiva turistica. Peraltro, dire che nei paesi c’è qualcosa che non va mi sembra una ovvietà, le cose che non vanno, come dicevo sopra, sono, ahimè, davvero tante, lo sappiamo da tempo e credo che la strada corretta sia quella di risolverne almeno alcune per attenuare le condizioni di precarietà.
D’altronde la questione può essere affrontata in modi diversi a seconda degli obiettivi politici: prendiamo atto che la vita di paese non è conveniente e, come si fa in certi contesti, spostiamo tutto nelle città lasciando che la natura si riprenda quanto le era stato sottratto dalla mano dell’uomo; conserviamo i paesi come musei per soddisfare i turisti e lasciare ai giovani memoria di ciò che eravamo; interveniamo per risolvere alcune delle cause che portano all’abbandono dei paesi. Chiaramente io propendo per questa terza prospettiva e credo che oggi le potenzialità della tecnologia potrebbero aiutare in tal senso.
Aggiungo che esistono diverse sensibilità alla base di determinati approcci. Chi non ha mai vissuto in un paese della Sardegna – quelli veri intendo, non la cintura urbana delle città – non sente quel senso di appartenenza, quel legame alla terra che ha invece chi ci ha vissuto ed è stato costretto ad andarsene per esigenze di studio e lavoro. Per noi rimarrà sempre un legame ideale che ci porta a soffrire vedendo lo stato di abbandono e morte progressiva a cui i centri in cui siamo nati sembrano destinati.
Quali sono le tre cose da cui ripartire, per rilanciare la Sardegna? Solo tre
Solo tre cose, consapevole che la risposta presuppone un tendere all’utopia e io col tempo all’utopia ho smesso di crederci.
Premetto che ho sempre caratterizzato il mio lavoro di studioso e formatore per impegno civile ed è in tal senso un lavoro che ha anche una dimensione politica. So bene che quando faccio lezione, a volte anche a diverse centinaia di persone ogni anno, sto proponendo loro un modello di approccio ai problemi che sia prima di tutto riflessivo e consapevole al di là dello specifico di ciò che insegno, ma d’altronde il cinema e la televisione sono racconti del mondo e il mondo per poterlo raccontare bisogna interpretarlo. So però anche che solo una parte di chi segue i miei corsi coglie la prospettiva complessa che io propongo. Ebbene, sono convinto che questa piccola parte giustifichi comunque un determinato approccio alla formazione e che in qualche modo dia un valore importante al mio essere intellettuale nel mondo. D’altronde, come scrive Paulo Freire, la differenza fra un operatore culturale di destra e uno di sinistra non si vede dalle dichiarazioni che essi fanno, ma dal modo in cui usano il medesimo proiettore. È la prassi nella quotidianità che fa la differenza.
Dunque, la prima cosa è una capillare campagna formativa che coinvolga tutti i livelli dell’istruzione dalla prima infanzia all’università. Una campagna articolata su tempi lunghi che intervenga nella formazione dei formatori senza remore, perché senza formatori competenti a validi il resto ha poco senso. Mi accontenterei però di avere un numero grande di colleghi formatori che, come me, cercano di far crescere la coscienza critica e la consapevolezza di sé come soggetti attivi nel processo storico (e per far ciò non possiamo tralasciare lo studio della nostra storia e della nostra produzione culturale).
Poi servirebbe una classe politica competente e corretta, ossia che sviluppi le strategie di intervento a partire da tecnici che non sono amici di famiglia e che faccia valere con determinazione le peculiarità di un territorio come il nostro (il caso della continuità territoriale è in tal senso emblematico).
Infine, e in fondo è una articolazione del primo punto, la crescita del senso civico che porti a capire che preoccupandoci solo del nostro particulare non facciamo crescere la nostra terrà ma non aiutiamo neanche noi stessi.