Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Dalla terra alla luna e ritorno: Tito Stagno

Fonte: L'Unione Sarda
8 ottobre 2009




Intervistarlo alla radio sarebbe un guaio, con quelle mani nervose e abbronzate che tamburellano sul tavolo dell'hotel di via Sardegna, a Cagliari. Sentirlo al telefono un peccato: perderesti i guizzi continui del suo sguardo curioso da ipermetrope. Scruta l'interlocutore dietro occhiali leggeri, molto diversi da quella montatura quadrata da televideo che lo ha consegnato alla storia. Il ciuffo biondo non c'è più. Lui, nell'immagine che ha di sé, ce l'ha ancora. E fa bene. Il prossimo 4 gennaio compirà ottant'anni, ma la sua età non è terza a nessuno. Non è il fisico asciutto, l'abitudine a prendersi cura di sé, che lo rende giovane. E neppure quei sessanta grammi di pasta (non uno di più) che lo accompagnano nella sua dieta quotidiana. È la testa. La voglia di mettersi in discussione. La pervicace convinzione che ogni giorno va vissuto sino in fondo. Maniaco della pulizia perché ha conosciuto le cimici e i pidocchi della guerra, innamorato della vita perché ha visto da vicino la morte: la sorella Teresa, quasi coetanea, portata via da un terribile male a quindici anni; il padre, troppo giovane per morire d'infarto, a 58 anni; le morti collettive di un Paese in guerra.
Tito Stagno non sa che cosa sia la noia. E neppure il meritato riposo. Chiedergli se ha qualche rimpianto non ha senso. Ti dice di no, e c'è da credergli. Amarezze sì, come potrebbe? E delusioni, rabbie, aspettative, coltivate in una lunga vita di lavoro in Rai e sfociate adesso in una serena consapevolezza di sé. Confesso che ho vissuto, potrebbe dire. Lo scrive, a suo modo, nelle 255 pagine che compongono il suo recentissimo libro e sono il compendio di una vita. Nato da un frenetico, intenso lavoro a quattro mani con Sergio Benoni, («ho scelto lui perché è un bravo giornalista, ci ha messo molta modernità e molta musica, e mi conosce bene, essendo mio nipote»), Mister Moonlight raccoglie le «confessioni di un telecronista lunatico». Un libro onesto. Un libro quasi spietato. Nel quale Mister Moonlight non nasconde di sé quasi niente. La vanità (male peraltro assai diffuso tra gli esseri umani e ancor più tra i giornalisti), la superstizione, la paura delle malattie, una certa tendenza all'ossessività.
Questo 2009 per lui è stato un anno faticoso: le televisioni e i giornali hanno cominciato nel mese di aprile a ricordargli il quarantesimo anniversario della conquista della luna, e non hanno ancora smesso. Interviste, domande indiscrete, celebrazioni, dubbi ai quali lui risponde nel suo libro edito da Minimum Fax («ma quanto sono bravi!»). Lo ha scritto quasi costretto dalla figlia Caterina, apprezzata giornalista, che gli ha messo sotto il naso un Mac. Il resto l'ha fatto lui, col «compagno di squadra». Lo hanno fatto la sua memoria, gli appunti di una vita da «inviato da qualunque posto», i ricordi di un'infanzia durissima, Cagliari, Sassari, Parma, Pola, dove la sua numerosa famiglia si rifugia nel '39. E l'orrore della guerra, i morti ammazzati per strada. La fame, la desolazione del dopoguerra, di nuovo a Cagliari, liceo Dettori, con Carlo Pirastu compagno di classe. Il bivano di via Alghero, con una famiglia troppo numerosa per starci tutta. Le estati al D'Aquila. Gli studi in medicina interrotti sul più bello. «Mi mancavano solo le cliniche. Ma non era la mia strada, privo di manualità come sono, non potevo fare il medico. Ero affascinato dalla psichiatria, ma che orrore in quegli anni il manicomio di Cagliari, altro che fossa dei serpenti».
Trova così il coraggio di cambiare, di passare da una istituzione totale a un'altra. Prima la radio, Radio Sardegna, dal '50 al '54, il corso a Milano, la televisione, dove viene assunto il 1° gennaio del '55. La lunga amicizia con Aldo Assetta e Gianni Attilini, i colleghi che non ci sono più, gli amici di una vita. «Mi sono innamorato di una minorenne», scrive, riferendosi ai primi anni della tv. Gli è andata bene: una vita da protagonista, al seguito di due papi e due presidenti della Repubblica, a contatto con gli avvenimenti più importanti del mondo, e infine, la Luna: un'avventura cercata, preparata, coltivata con testarda costanza.
Quanto all'altra minorenne che lo ha catturato, si chiama Edda, è una bellissima parmigiana di madre americana, ha undici anni in meno di lui e da 51 anni è sua moglie. Giornalista alla Gazzetta di Parma, collaboratrice di altre testate, madre di Caterina e Brigida (gastroenterologa con tessera di giornalista), nonna di quattro nipoti, ha l'aspetto sereno di una compagna che con te ha diviso tutto, e da te accetta tutto: i giorni belli e quelli brutti, le gioie e i dolori, gli entusiasmi e gli umori cupi. È lei (racconta lui) a vestirlo da capo a piedi, («tengo molto al mio decoro, è vanità ma anche rispetto degli altri, ma non saprei scegliere»). È sempre lei, su richiesta, a raccontare che i difetti di Tito sono i suoi pregi esasperati: la puntualità che diventa ansia, la cura della salute che sfiora l'ipocondria. «Lo ammetto, ma credo anche che l'ansia coincida con la serietà». Del resto, con una vita di dirette alle spalle, potrebbe mai non essere puntuale, e ansioso?
Ripete che quest'anno lunare gli ha portato molta insonnia e grandissimo stress. «Ho dovuto curarmi, prendere farmaci, mi segue un bravissimo medico. Ora posso dire che sto bene, grazie a Dio». E poi, con un guizzo negli occhi: «La mia è stata una vita fantastica: ho conosciuto Reagan e Nixon, Eisenhower e Kennedy («il più emozionante di tutti»), Sophia Loren e Padre Pio. E la luna». Che ieri è tornata a far parlare di sé nell'incontro di piazza San Cosimo, anteprima del Festival Tuttestorie. Parla della luna, Stagno, degli equivoci con Ruggero Orlando che tanta popolarità hanno dato a quella serata, e della terra che non conosce mari della tranquillità. Della Rai matrigna e di Simona Ventura, che entrò in Rai grazie a lui ed è «una persona che conosce il dono della gratitudine».
In albergo, poco prima, trova il tempo per amare considerazioni sulla Rai che non assolve più la sua funzione di servizio pubblico, sulla libertà di stampa che non gode buona salute. Rievoca la spartizione selvaggia del 1976, con la Dc, abituata al potere, che sceglieva in genere i bravi: Vespa, Fava. Con il Psi che non guardava in faccia nessuno («avevo la tessera, l'unica della mia vita, perché ero nenniano, l'ho restituita»). Ricorda la telefonata di Licio Gelli che gli chiuse il telefono in faccia quando si accorse che da lui non avrebbe ottenuto niente. «Credo di aver pagato un prezzo». E ancora, lo scherzo che gli fece Tanassi. «Aspiravo alla testata, se l'è presa un suo servitore...».
Infine, dopo la botta, la scelta di stare al Tg1 con Emilio Rossi, a occuparsi non di politica, non di esteri, non di cronaca, ma di sport, «il mio primo amore alla radio». Del resto, ha fatto sport attivo a lungo: ginnastica artistica a livello olimpico, pallanuoto, pattinaggio, pallacanestro. «Così, alla Rai, ho creato una bella squadra di cronisti, e ho insegnato loro a considerarsi giornalisti di serie A. Lo sport già da allora faceva i conti con il costume, la politica, l'economia. Un giornalista sportivo deve sapere far tutto». E un giornalista che è stato sulla luna deve saperne far ritorno. Lui c'è riuscito.
MARIA PAOLA MASALA

08/10/2009