Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

«Ho lasciato un lavoro sicuro per riavere il diritto a sognare»

Fonte: L'Unione Sarda
28 settembre 2009

Dietro le quinte. Vive a Sardara con moglie e tre figli. Racconta la scelta di abbandonare un contratto a tempo indeterminato
Gianfranco Sperati: mi sono dimesso dal municipio di Cagliari e oggi sono un insegnante precario contento della sua scelta

DAL NOSTRO INVIATO
PAOLO PAOLINI
SARDARA ««Il 30 agosto del 2007, alle 18 e 26, ho strisciato il badge per l'ultima volta nel municipio di Cagliari». Gianfranco Sperati ha festeggiato il secondo anniversario della (sua) liberazione. Aveva un contratto a tempo indeterminato: «Mi sono dimesso per diventare professore di scuola media. Ero un lavoratore garantito, sono diventato un precario. Non pentito».
Moglie e tre figli, a quarantasei anni ha lasciato l'ufficio Ragioneria senza rimpianti: «Avevo la qualifica di dattilografo e tante mansioni. I colleghi mi hanno dato scherzosamente del matto». C'è voluto coraggio, qualcuno dice pazzia: «Da ragazzino mi ero fatto male, non potevo frequentare la scuola e rischiavo di dover ripetere la terza media. Uno zio mi ha dato alcune ripetizioni spalancandomi le porte di un altro mondo, instillandomi il gusto del bello. Non so quante volte mi ha fatto ripetere quel verso della divina commedia su Manfredi di Svevia: Io mi volsi ver lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l'un de' cigli un colpo avea diviso . A quei tempi ho capito quale avrei voluto fosse la mia strada».
E invece?
«Mio zio ripeteva: primum vivere . Sono nato a Roma, orfano da bambino, ho fatto tanti lavori umili e non mi sono mai vergognato. Pulivo le gabbie nel canile, inserviente in una casa di riposo. Con mia moglie - che è sarda - ci siamo trasferiti a Sardara perché la vita era meno dura per chi come noi desiderava una famiglia numerosa. A Cagliari ho fatto l'operaio, il commesso in municipio, con un concorso interno sono diventato impiegato».
Quando ha deciso di rimettersi in gioco?
«Moglie e figli mi hanno incoraggiato. Ho fatto la selezione per la scuola, come molti: la mattina in ufficio, la sera studiavo, e la notte pure. Dal 2005 al 2007 ho ottenuto un part time per insegnare nell'istituto dei Padri Scolopi, a Sanluri. In Comune andavo due giorni la settimana, diciotto ore in tutto. Gli altri quattro insegnavo. Risultato: guadagnavo meno e lavoravo di più».
Anni previsti di precariato?
«Immaginavo che nel giro due, massimo tre anni sarei passato di ruolo».
Quanto guadagnava in Comune?
«Milleduecento euro al mese».
E a scuola?
«Milletrecento, nei mesi in cui insegno».
L'annoiava la vita d'ufficio?
«Finché sono rimasto nella divisione Cultura ero soddisfatto. Nell'ufficio Ragioneria invece la noia si faceva sentire, capivo che non era la mia strada».
Il rapporto con i capi?
«Generalmente buono. Con uno i caratteri erano inconciliabili. Se non facevi sconti alla tua dignità, la contrapposizione diventava inevitabile».
Il nome?
«Ada Lai. Dopo il contrasto con lei ho capito che da un episodio antipatico poteva nascere qualcosa di positivo. Vorrei quasi ringraziarla perché involontariamente mi ha dato il la per realizzarmi».
I fannulloni?
«In ufficio ci si può anche imboscare, ma spesso i fannulloni hanno un'origine ben precisa: un dirigente che non sa fare il suo lavoro, non motiva le persone, magari brilla per le assenze».
A cosa sta rinunciando?
«Alla tranquillità che ti garantisce lo stipendio a fine mese».
E la sua famiglia?
«Quando i figli si trovano a capire che, per esempio, l'iscrizione in piscina è legata al rinnovo del contratto, toccano con mano gli effetti della mia scelta».
Non pensa che, in momenti di crisi, sia sospeso il diritto a sognare?
«Ho tante soddisfazioni che mi ripagano delle fatiche. Quando insegnavo nella colonia penale di Is Arenas ho provato una sensazione di pace mai goduta in tutta la vita».
Il lato bello dell'insegnamento?
«Il rapporto con gli studenti, constatare quotidianamente i risultati».
Ha pensato di tornare indietro?
«In qualche momento, soprattutto quando dovevo rendere conto della situazione ai miei figli, forse sì, poi loro stessi mi hanno ridato le motivazioni per andare avanti. Avevo addirittura preparato una lettera per chiedere di rientrare nei ranghi: la legge prevede che possa farlo entro cinque anni».
L'ha spedita?
«Non è mai uscita dal cassetto».
Quando avrà lo stipendio sicuro?
«Non lo so, navigo a vista».
Dai test di ammissione all'università emerge l'ignoranza degli studenti. Di chi è la colpa?
«Mi stupisco che la scuola funzioni ancora così bene, visto il trattamento riservato dallo Stato agli insegnanti».
E gli scolari impreparati?
«Il cambio annuale dei docenti non aiuta. Certo, ci saranno colpe anche di chi sta in cattedra, ma questo vivere alla giornata è davvero dannoso. Per gli alunni come per gli insegnanti».
ppaolini@unionesarda.it

27/09/2009