Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Inno alla pace

Fonte: L'Unione Sarda
20 luglio 2009

Una Marcia trionfale (contestata) che è una condanna della guerra per l’Aida di Medcalf ieri al Lirico di Cagliari. Grandi protagonisti Daniela Dessì,Walter Fraccaro e Irina Mishura

Bagliori di fuoco oltre il velo del sipario circondano Aida. Sin dalle prime battute del preludio richiamano guerre e distruzione, evocando i conflitti interiori di una principessa-schiava, divisa tra amore e dovere, amante e padre, foreste imbalsamate e lande ignude. Le prime appartengono alla perduta Etiopia, le seconde all’Egitto. Un Egitto assente da questa affascinante messa in scena di Stephen Medcalf ripresa e arricchita da Marco Carniti. Eppure presentissimo. E se il triangolo di luce azzurrina che si staglia nella scena finale evoca - con la piramide - la tomba dei due amanti, è quel color ocra sgretolato che sfuma nel blu a renderlo immanente. È il deserto che ci accompagna dall’inizio alla fine, a ricordarci che è anche un deserto dell’anima, quello che qui viene rappresentato. Essenziale e per questo estremamente drammatica, l’Aida andata in scena ieri sera a Cagliari con Daniela Dessì, Walter Fraccaro e Irina Mishura splendidi protagonisti, è ambientata alla fine del 1800, al tempo della guerra francoprussiana. Gli anni in cui Verdi la compose, così veri, feroci, lontani da quell’Egitto favolistico immaginato dal grande compositore. A quegli anni - alla Guerra - appartengono i protagonisti maschili dell’opera. Immersi nella storia, hanno divise avorio o nere, armi tardo-ottocentesche: sono le baionette e i cannoni, gli elementi essenziali di una Marcia trionfale che a molti è piaciuta e a molti altri no: per i mancati elefanti, forse, ma anche per la scelta coraggiosa di trasformare un Inno alla vittoria in un inno alla pace.
Quella pace invocata alla fine di tutto da Amneris, e ballata dalle baiadere durante la danza delle armi: con i soldati intenti a puntare i cannoni, e le donne a chiuder loro le bocche. Medcalf (ricordate il suo splendido Flauto Magico?) fa un’operazione ardita: attribuisce alla parte femminile una connotazione atemporale e orientaleggiante (le stanze della principessa Amneris sono un trionfo di sete e damaschi degno di un harem) e consegna gli uomini alla Storia. È un contrasto continuo e intrigante tra amore e dovere, privato e pubblico, intimità e coralità quest’opera che il pubblico ha già avuto modo di apprezzare nel 2003 ma che oggi, a distanza di sei anni, appare del tutto nuova. Merito di Carniti, che ha seguito con puntigliosa partecipazione la ripresa della messa in scena, ma anche del tempo che lavora di suo, delle suggestioni e delle emozioni che si sedimentano, chissà in quale luogo della nostra mente, e aprono nuove letture. Certamente è più evidente, rispetto alla prima edizione, l’attacco al potere teocratico, e l’aspetto pacifista: con il trionfo si celebra una vittoria, ma anche l’anelito di pace dell’elemento femminile. Così liquido, così fantastico e colorato, così diverso dalla scabra secchezza dell’elemento maschile. È un impianto asciutto e contemporaneo, quello che Medcalf dà alla sua Aida. E tanto più è vuoto lo spazio nel quale l’azione scenica si svolge, tanto più drammatica è la sua essenza. Domina la pura recitazione. Domina, con le voci dei protagonisti, la drammaticità dei gesti, delle dinamiche interne, delle espressioni degli attori. Quell’Aida che si sporge dalla grande gabbia nella quale è stata rinchiusa e cerca di toccare con l’indice della mano la mano del padre Amonasro, è una metafora michelangiolesca della patria irraggiungibile, del paradiso perduto. Ridotto all’osso nella sua drammaticità, il disegno di questa messa in scena, sostenuto ancora una volta dalle scene e dai costumi di Jamie Vartan, dalle luci di Giuseppe Di Iorio e dalle belle coreografie di Gloria Pomardi, ha il coraggio di rifuggire dai soliti canoni estetici ridondanti e di proporre una lettura diversa, giocata su una serie di sequenze cinematografiche di estrema drammaticità. Ispirata (soprattutto nella figura tragica di Amneris) alla tragedia greca. Nel suo lungo abito nero, nei tormenti del suo cuore diviso tra amore e odio, desiderio e gelosia, la figlia dei Faraoni ricorda la Medea di Pasolini, essenziale e primitiva.
Di grande suggestione - col deserto che occupa tutta la scena a evocare il nulla, e col nulla la morte - l’apparizione notturna del Nilo (ma è il mare del Poetto) che apre il terzo atto. Spettacolare nelle scene d’insieme e nella dimensione “politica”, quanto commovente nell’esaltazione della sfera privata, l’opera raggiunge il massimo della tessitura drammatica in quel buio finale che spegne sulle ultime struggenti note l’abbraccio dei due amanti sepolti vivi e la furiosa solitudine di Amneris. Alla fine il pubblico, riscaldato dal buffoni della mancata Marcia trionfale, ha applaudito con maggior calore del solito tutti i protagonisti. Compreso Stephen Medcalf, che naturalmente è stato accolto anche da qualche dissenso.
MARIA PAOLA MASALA