Il regista di “Cavalleria rusticana” e di “Pagliacci” racconta le due opere in programma venerdì al Lirico
Lorenzo Mariani, la verità e la lezione di Chung
Quando era bambino e viveva a New York, figlio di emigranti di Lerici, si tappava le orecchie per non sentire le arie di Verdi o Puccini che salivano dal ristorante del padre al pianoterra. «Era stato un allievo di Alessandro Bonci, in Italia, e per lui mandare avanti il locale e far cantare tutti, camerieri e clienti, era la vita». Lorenzo Mariani sorride, al ricordo di quella sorta di azienda musicale a gestione familiare che ha segnato i primi anni della sua vita. E che alla faccia delle orecchie tappate rappresenta oggi la sua identità. Cinquantacinque anni a luglio (ma ne dimostra assai meno), una carriera internazionale e una vita parallela da direttore artistico del Teatro Massimo di Palermo, considera le opere della tradizione fondamentali per creare un rapporto stretto col pubblico. «È chiaro che occorre mettere in cartellone anche novità - e per voi qui a Cagliari questo è un punto di forza - ma io ho visto che se si propone in modo qualitativamente alto il repertorio, si rafforza il rapporto tra teatro e pubblico, perché si va incontro incontro in modo generoso alle aspettative. È come chi va a Londra a vedere Il fantasma dell'opera : non è una novità ma è un compito che una istituzione pubblica deve svolgere».
E racconta dell'emozione che mettere in scena due opere amatissime come Cavalleria Rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo comporta per tutti gli artisti coinvolti. Il dittico verista, che manca da Cagliari (Auditorium del Conservatorio) dal 1987, debutterà venerdì 29 alle 20.30 al Lirico con la direzione d'orchestra dello sloveno Marko Letonja, alla sua prima opera a Cagliari. «Durante questi giorni di prova, più d'una volta ci sono venuti i brividi a certi passaggi cruciali. Ecco la ragione per cui facciamo tutti questo mestiere. È una cosa veramente unica, la capacità del nostro melodramma di commuovere. Funziona sempre, anche in sala prova col pianoforte, perché risveglia il nostro Dna. Questa roba ti prende, sono due piccole gemme del teatro musicale. E la preghiera e l'intermezzo di Cavalleria rappresentano un momento di grande ispirazione».
Nell'impostazione registica dell'allestimento firmato da Mariani (già proposto al Massimo nel 2007) tutto nasce dall'idea di dar vita a uno spettacolo che metta in scena i protagonisti del dramma e gli spettatori. Una sorta di catarsi di emozioni in stile mediterraneo che si avvicina al modo greco di esporre passioni, contrasti, amore, gelosia, in modo così aperto e pubblico. Da qui la soluzione scenica dell'anfiteatro come luogo base del dramma. Ricorda la Magna Grecia, il coro greco, il carattere pubblico di ciò che avviene. «In queste due opere tutti sanno, tutti fanno, tutti vedono. La scalinata è un anfiteatro - ma anche la gradinata di una chiesa barocca - dove tutto succede davanti a tutti. Dove i danzatori in scena rappresentano il popolo del paese, e il popolo ha la funzione del coro greco».
Cavalleria che racconta una storia della durata di dodici ore (dalle 12 alle 12 successive) ben si presta all'operazione: e proprio come una tragedia greca rispetta i canoni aristotelici dell'unità di tempo luogo e azione. «Ho scelto di ambientare Cavalleria nella sua epoca, fine ottocento e di farla tutta nera, perché è un'opera di grande calore ma luttuosa e priva di luce. Vizzini, dove si svolge la vicenda, è lastricata di pietra lavica». Diverso il discorso per Pagliacci , portato da Mariani agli anni cinquanta del Novecento, «come un film in bianco e nero di Fellini, come Giulietta degli spiriti »: «È un circo, un mondo onirico il commedianti, quello che raccontiamo, un teatro nel teatro: un po' Pirandello un po' divertissement». Due storie parallele che condividono gelosia, rivalità, sangue, morte.
Grande ammiratore di Franco Zeffirelli («un maestro, con lui ho fatto due opere e due film, e sono molto orgoglioso di averlo portato a Palermo», si sente pià vicino per generazione a un Graham Vick e a Robert Carsen, «anche se il mio stile è meno radicale del loro. Le nostre influenze visive e culturali sono più legate alla tradizione, noi italiani abbiamo un'archeologia mentale che ci segna profondamente, a teatro andiamo a sentire l'opera non a vederla. Una bella voce conta più di tutto».
Giunto in Italia da New York molti anni fa con una borsa di studio, Mariani deve molto a Zubin Mehta e a Claudio Abbado, i direttori più amati. Ma è la lezione del grande Chung quella che l'ha colpito in maniera indelebile. «Con lui qualunque opera diventa nuova, perché diverso è il modo in cui l'affronta. Per lui la musica viene dalla spirito. Ricordo la regia di una Bohème . Seguì con attenzione il terzo atto, quello dove l'azione è ridotta al minimo, mi disse che era tutto corretto e giusto e poi col piglio di un monaco tibetano sentenziò: “questo è un atto in cui si deve respirare nell'aria la difficoltà di comunicare. E questo non è una questione di regia, di chi va dove, di musica, ma di intenzione! Io sento che ancora queste intenzioni non ci sono. Non abbiamo raggiunto la sostanza”. Fu una grande lezione, per me. Le cose o sono vere, o non valgono niente».
MARIA PAOLA MASALA
26/05/2009