Cinque appuntamenti nel Ridotto del Teatro Massimo per un tuffo nella follia creativa del movimento marinettiano. Alla presenza di esperti e studiosi, fino al 26 maggio, un puzzle di proiezioni storiche. di Elisabetta Randaccio
“Quel pubblico che ci ricopre di fischi e di verdure noi lo ricopriremo di deliziose opere d'arte!” Così affermava lo scrittore Aldo Palazzeschi, nel periodo della partecipazione al movimento futurista, di cui quest'anno si celebrano i cento anni del “Manifesto” (apparso sul francese “Le Figaro” il 22 febbraio 1909) firmato da F. T. Marinetti, che allineò l' Italia al ridisegnamento totale delle arti, che stava avvenendo in Europa, in uno straordinario climax di avanguardia entusiasmante, messo in parte a freno, soprattutto nel nostro paese, dallo scoppio della prima guerra mondiale.
L'ironia della frase di Palazzeschi indica, da una parte lo scontro frontale con chi considerava i futuristi ridicoli e insopportabili provocatori, dall'altra, l'elemento dell'ironia, del grottesco, costantemente presenti nei vari “Manifesti” (“bisogna fare della lussuria un'opera d'arte” affermava, per esempio, l'affascinante Valentine de Saint Pont nel “Manifesto della donna futurista” con grande scandalo dei ben pensanti della belle epoque).
Pareva quasi scontato, dunque, che tale movimento con la sua magnificazione del dinamismo e della velocità in tutti i settori dell'espressione culturale, incontrasse il cinema, bambino, ma già spudoratamente, nel suo connubio indissolubile di industria e arte, disponibile a mutamenti “linguistici”.
Nel 1916 arriva, così, “Il Manifesto della cinematografia futurista” che recita: “Il cinematografo è un'arte a sé... non deve copiare il palcoscenico... essendo essenzialmente visivo, deve compiere innanzi tutto l'evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà, dalla fotografia, dal grazioso, dal solenne. Diventare antigrazioso, deformatore, impressionista, dinamico, parolibero”. I redattori del testo evidenziavano spunti, idee espressive, trasgressioni che solo la costruzione del film con tecniche avanzate metterà, tanto tempo dopo, in atto.
Così, il matrimonio tra futurismo e cinema risultò complesso e arduo con produzioni purtroppo andate perdute e altre, solo in parte tese a tradurre in pratica la genialità teorica futurista. Di questo, ma soprattutto della straordinaria influenza che nel cinema ebbero le avanguardie dei primi del Novecento (Dadaismo, Surrealismo, per esempio), si avrà un saggio nella bella rassegna “Occhi elettrici” che prenderà avvio dal 19 maggio prossimo a Cagliari, presso il Ridotto del Teatro Massimo (via De Magistris). Fino alla conclusione del mese (la manifestazione chiuderà il 26), sono previsti cinque appuntamenti imperdibili organizzati da “Cagliari in corto” con la collaborazione della Cineteca di Bologna, della Società Umanitaria-Cineteca Sarda, della Fondazione Cineteca Italiana, del Teatro Stabile della Sardegna e di Cinemecum. Esperti e studiosi (tra gli altri Piero Pala, Pietro Montani, Antioco Floris) si alterneranno a presentare i film tentando di ricostruire il puzzle del futurismo e delle avanguardie nella storia del cinema.
Sarà possibile vedere il classico “Thais” di Anton Giulio Bragaglia, ma anche “Velocità” di Pippo Oriani, realizzato, però, nei primi anni trenta. Assai interessanti le riproposizioni dei film di Ejzenstein, che ci ricordano come il futurismo in Russia sposò gli entusiasmi innovativi della Rivoluzione d'Ottobre nel suo periodo più creativo dal punto di vista artistico, innestandolo anche nel cinema, soprattutto attraverso un uso originale del montaggio.
Scriveva, già, nel 1913 Majakovskij “La grande trasformazione, da noi iniziata in tutti i rami della bellezza in nome dell'arte dell'avvenire, arte dei futuristi, non si fermerà, né può fermarsi dinanzi alla porta del teatro” e questa spinta al mutamento estetico esplose con la sua forza vitale (“la città di Vitebsk, ad esempio fu un giorno mutata in una sorta di favolosa contrada della pittura moderna: i tram, le vetrine, le case, si coprirono di luccicanti colori” racconta Angelo Maria Ripellino nel suo splendido testo su Majakovskij) sino a quando verrà fermata dal grigio dello stalinismo. Ma intanto Ejzenstein aveva firmato i suoi film migliori (“Sciopero” e l'emblematico “Il vecchio e il nuovo” saranno proiettati durante le giornate della rassegna) e il cinema, linguisticamente parlando, non sarà più lo stesso.