“La pietra del paragone” debutta al Teatro Lirico
U na pietra che non ha paura del paragone, perché è fuori da qualunque confronto. Questo è l'allestimento del melodramma giocoso di Gioachino Rossini ventenne che ieri ha debuttato al Lirico di Cagliari (per la prima volta dopo 204 anni): una produzione geniale, che è teatro nel teatro, cinema, videoarte. Una follia di colori, invenzioni, giochi - e musica, meravigliosa musica - per l'omaggio più bello a Dario Fo. Che è morto e ha vissuto tre vite, e proprio su questo palcoscenico, nel gennaio del 1997, propose un'“Italiana in Algeri” piena di meraviglia.
Rossini allora e Rossini oggi, per un capolavoro assoluto (il libretto è di Luigi Romanelli) che viene proposto a Cagliari nell'allestimento visionario del Théâtre du Châtelet e del Regio di Parma. Prodotto nel 2007, pensato dalla calcolata follia di Pierrick Sorin e Giorgio Barberio Corsetti, è ancora attualissimo.
Qualche spettatore, nell'intervallo, ha sottolineato con piacere il contrasto con Rossini (altri sono rimasti un po' spiazzati, e ci sta anche questo). In realtà, in questa messinscena, c'è tutto lui, il suo spirito, la sua giovinezza baciata dalla sorte.
L'ambientazione slitta agli anni Sessanta del Novecento. Ce lo dicono i tailleur coloratissimi delle signore, gli abiti sobri degli uomini (costumi di Cristian Taraborrelli), la villa con piscina, la cucina, gli arredi. Ma in realtà non è tanto l'ambientazione temporale a colpire. È l'allestimento in sé, sospeso nel tempo e nello spazio, e difficile da raccontare, giocato com'è su tre piani. Sul palcoscenico i protagonisti si muovono in uno spazio vuoto, dominato da un blu che evoca atmosfere chagalliane e hopperiane. Sulla parte alta del palcoscenico ritroviamo riprodotti su tre o sei grandi schermi gli stessi personaggi, stavolta però inseriti nella scena. Non più il nulla dipinto di blu, ma ville, piscine, alberi, mobili. Insomma, lo sfondo di qualunque storia che si rispetti. Reso possibile grazie a tre telecamere, una fissa e due mobili, che riprendono i modellini miniaturizzati delle diverse ambientazioni, poggiati in un angolo del palcoscenico, e li rimandano negli schermi.
Un gioco di proiezioni che ha il sapore di una diavoleria, un incrocio tra realtà e finzione dove ci si perde. A negare la legge stessa di gravità, sono quei mimi in blu che il nostro occhio vede, ma la telecamera non registra. Sono loro a far rivoltare la frittatina che un maggiordomo folle prepara per tutti (il bravissimo Giovanni Prosperi). A far volare shaker e aeroplanini, a trascinare gommoni e carriarmati. Sempre loro a dar vita a quell'incredibile duetto tennistico tra il conte Asdrubale e la marchesa Clarice.
E che dire di lui, ormai cotto a puntino, che gorgheggia come una Moka sulle fiamme di un piano cottura, o sottolinea il proprio rigore gelando dentro il frigorifero? Invenzioni su invenzioni, note dopo note, lo spettacolo procede, con protagonisti superbi. Cantanti, e attori perfetti (a domani la critica musicale). Asdrubale e Clarice; Donna Fulvia e la baronessa Aspasia; il poeta Pacuvio, esilarante nel tormentone di Ombretta sdegnosa del Missipipì e il gazzettiere prezzolato Macrobio; il cavalier Giocondo e Fabrizio, fedele segretario. E gli artisti del coro, l'orchestra diretta da Francesco Ommassini. Tutti incredibilmente bravi, e divertenti. Persino i topi (veri e per fortuna sotto vetro), metafore della finta miseria del conte, si rivelano perfetti attori. Insomma, uno spettacolo travolgente (solo un po' meno nel secondo atto) che sarebbe piaciuto al ragazzaccio pesarese.
Maria Paola Masala