Ieri insolita apertura per il festival “Marina cafè noir”
E ra il 6 marzo del 1986 quando le ruspe abbatterono i primi cinque casotti del Poetto. «Un pezzo della vecchia Cagliari», raccontano le cronache di allora. C'è voluta l'effimera magia di Marina cafè noir, che ieri ha inaugurato in spiaggia la sua quattordicesima edizione, per far risorgere dalla sabbia ingrigita, ma ancora bianca nella memoria, due piccole palafitte in legno, tinte di giallo e di verde. Come capita quando si riscoprono i luoghi dell'anima, sono riaffiorate anche le storie che la demolizione e il ripascimento hanno tramutato in ricordi, nostalgie e rimpianti. «Un'utopia realizzata, tra le tante e sconfinate che ispirano il nostro festival», hanno detto in apertura della serata Giacomo Casti e Francesco Scanu. Anime dell'associazione Chourmo, hanno poi ceduto l'insolito palcoscenico a Francesco Abate, il giornalista e scrittore che al Poetto ha ambientato una parte importante del suo ultimo romanzo, “Mia madre e altre catastrofi” (Einaudi).
Lo spazio in cui la performance si è svolta è quello che fa da quinta alla narrazione, il luogo in cui si approfondisce la dialettica tra i due protagonisti (il ruolo della madre è stato ancora una volta interpretato dall'attrice Francesca Saba) e davanti al quale, tra vette d'ironia e abissi di tenerezza e malinconia, si muovono i personaggi principali della storia: Maria Cogotti, la signora Corrias, le figure epiche dei bagnini e dei custodi degli stabilimenti balneari. «Alla metà degli anni Sessanta i ragazzi chiamavano questo lembo di spiaggia “Striscia di Gaza”, quelli della generazione successiva lo ribattezzarono “buco”», ha sottolineato Abate. Era il luogo destinato ai proletari, occupato da quanti, non avendo la possibilità di acquistare le tessere per il Lido, avevano l'ambizione di potervi entrare, magari dal mare. Era infatti necessario superare il muro che, spingendosi sin dentro l'acqua, proteggeva la borghesia cagliaritana. C'era persino una grata in ferro a separare i due mondi e a individuarli (fatte salve le sfumature di cui erano artefici gli incursori) in maniera netta. «Non c'è altro luogo che possa rappresentare meglio la storia sociale della città, quella del secondo Dopoguerra e degli anni '60 e '70. La statua di Carlo Felice non ha alcun valore simbolico, così come non la ha il Bastione. Le famiglie cagliaritane si formavano al Poetto», ha detto lo scrittore che nel reading ripercorre la sua infanzia e l'adolescenza.
A dare voce al ricordo, davanti a un pubblico numerosissimo (il “buco” tra il Lido e lo stabilimento della Marina militare è riuscito a contenere a stento gli spettatori), anche Massimiliano Medda, compagno di scuola di Abate e quindi testimone delle storie narrate, e Jacopo Cullin. Nella finzione scenica hanno vestito i panni del cugino Jack del Cep e Massimiliano della Marina, colorando la rilettura del passato di aneddoti divertenti. Al giornalista Giorgio Pisano (alla cui memoria erano dedicati spettacolo e anteprima del festival) la performance sarebbe piaciuta, forse. In fondo si è raccontata la città dal basso, dalla stessa prospettiva da cui ha sempre amato guardare per stendere le sue cronache.
Manuela Arca