Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Grazia Deledda, l’incanto di Casteddu

Fonte: La Nuova Sardegna
2 maggio 2016

 


La processione descritta da narratori e viaggiatori
di Salvatore Tola

Sono molti gli scrittori che, nel descrivere Cagliari o ambientarvi le loro storie, si sono soffermati sulla festa di Sant’Efisio. L’attenzione di alcuni si è appuntata sulla varietà e ricchezza dei costumi indossati dai partecipanti. Primo fra tutti il gesuita Antonio Bresciani che, nel suo celebre libro sulla Sardegna del 1850, dopo aver trattato in un intero capitolo «del vestire de’ sardi», fa sapere che nel corso della grande processione «si spiega tutta la vaghezza» degli «abiti da festa» della gioventù. E passa a descrivere le «fogge ben assortite» di quella «del Capo meridionale», con «le molte guise de’ coretti, delle cinture, de’ braconcelli, de’ calzaretti»; mentre quella del Capo di sopra sfoggia «abiti schietti e volgenti al bruno, con giubboncini di verde cupo, d'azzurrone, di pavonazzo, o di vinato chiuso». Per passare poi agli «uomini della Barbagia e dell’Oleastra, vestiti neglettamente, ma dicevolmente», a «quelli della Nurra e della Gallura con abiti attillati e stretti, ma nobili e gravi» ecc. Il tutto per confermare la tesi di fondo dell'opera, cioè l’arcaicità della civiltà locale e il legame dei sardi «cogli antichissimi popoli orientali».
Qualcosa di più. Il discorso è stato ripreso qualche anno fa, e ovviamente aggiornato, dallo scrittore e antropologo Giulio Angioni: mentre un tempo, osserva, si esibiva l'«abito buono» allora in uso, oggi per la festa si rinuncia alla moda del momento per tornare proprio a quei costumi, accuratamente conservati o ricostruiti, e orgogliosamente esibiti. Questo comporta ovviamente un risvolto folkloristico-turistico, tanto che fa la gioia di «mille fotografi ubriachi nella ridda di fogge e di colori». Ma a ben guardare si nota che donne e uomini in costume «si mostrano sapendo di significare qualcosa di più», un qualcosa che ogni sardo «riconosce subito come proprio ed esclusivo» e ha quindi a che fare con il suo essere più profondo, la sua identità.
Partecipazione popolare. Tra gli aspetti che più hanno colpito i forestieri c’è la grandiosità della festa, dovuta alla nutrita partecipazione popolare: «Più di 30.000 abitanti», scriveva il bibliotecario francese Valery nel 1837 «offrivano il più magnifico, il più singolare degli spettacoli per la ricchezza, la varietà dei costumi, l'allegria dei balli e la gioia degli abbondanti spuntini sull'erba». Per di più lo sorprendeva la vivacità e la spontaneità di manifestazioni che «sono mille volte più allegre, più vere, più pittoresche di tutti i nostri festeggiamenti ufficiali».
Giovinezza nel cuore. Su questo è d'accordo anche il viaggiatore Henri Monier, che arrivò da Lione alla metà dell’Ottocento e si diffuse a lodare «i sardi, popolo primitivo», che «conservano ancora la giovinezza del cuore, la poesia superstiziosa, la fede spontanea», tanto che danno vita a celebrazioni nelle quali «tutti quanti sono attori». Autore del diario di viaggio “Lettres sur la Sardaigne”, Monier scrive: «I canti, i balli pittoreschi, i costumi variopinti» e le altre manifestazioni «formavano uno spettacolo inebriante e magico il cui ricordo abbellirà a lungo la poesia dei miei sogni».
L’uomo di legno. Ma come altri forestieri dallo sguardo smaliziato, era pronto anche a cogliere dettagli meno entusiasmanti: lo stesso Efisio gli appariva come «un piccolo uomo di legno dorato, dipinto di rosso, vestito con un elegante costume romano»; e riferiva che i due «sardi anziani» addetti ai buoi che trainavano il cocchio impugnavano «enormi mazzi di rose» con i quali pulivano gli animali sotto al coda ogni volta che provvedevano ai loro bisogni naturali. Tornavano però a entusiasmarlo le donne, pronte a lanciare «parole provocanti accompagnate da fragorosi scoppi di risa»
La scrittrice bambina. Tutto diverso l'atteggiamento di Grazia Deledda che, ormai sessantenne, immaginava di raccontare a una nipotina, Grace, il viaggio che aveva fatto da bambina da Nuoro a Cagliari per assistere alla grande festa. L'attenzione sua e dei parenti e amici coi quali si accompagnava, non andava tanto ai costumi, che avevano occasione di vedere da vicino nelle feste della Barbagia, quanto
alle «tante meraviglie» della grande città, «il nostro Casteddu Mannu»: prima annunciate dalla fama «delle sue palme, dei suoi bastioni, delle sue torri leggendarie», e poi verificate alla vista di «palazzi grandi, balconi fioriti, negozi di lusso, monumenti e giardini, e bastimenti e barche».