Se vivessimo in un altro Paese e in un altro Pianeta, non sarebbe facile decidere cosa scegliere tra il sì e il no al referendum anti-trivelle. E’ l’aspetto più sorprendente di questa vicenda. Stiamo parlando appunto di “trivelle”, cioè di un’attività di carattere tecnico che dovrebbe produrre effetti misurabili con un ottimo grado di approssimazione. Invece gli argomenti dei fautori del sì e dei fautori del no divergono su tutto: dalle ricadute economiche e occupazionali degli impianti fino alla loro pericolosità per l’ambiente. Divergono, cioè, su elementi oggettivi. Quando poi si passa all’esame di aspetti opinabili quali, per esempio, gli effetti che un risultato o l’altro avrebbe sulle future politiche energetiche, il caos diventa totale.
In casi del genere anche i cittadini più informati si trovano costretti a decidere seguendo il criterio abituale dei cittadini meno informati: conclusa la disamina degli opposti argomenti, constatata l’impossibilità di valutare in modo adeguato le questioni tecniche, si guardano le facce dei leader dei fronti opposti. E si dà ragione alla faccia che ispira maggiore fiducia. Ma questa volta nemmeno l’affidarsi risolve il problema. Perché negli opposti schieramenti ci sono personalità di sicuro prestigio accanto a soggetti molto meno affidabili: sul fronte del sì i talebani dell’anti-industrialismo, su quello del no gli squali delle compagnie petrolifere.
Il fatto è che viviamo in questo Pianeta e in questo Paese. Quindi possiamo, e anzi dobbiamo, integrare i controversi e a volte oscuri argomenti tecnici con l’esperienza, la memoria, la conoscenza del contesto politico, la nostra visione della società, la nostra idea di futuro. E porci le domande conseguenti. La prima, quasi ovvia, è questa: perché lo Stato (consentendo alle compagnie di andare avanti fino all’esaurimento dei giacimenti) dovrebbe privarsi di una prerogativa di cui dispone? E soprattutto perché dovrebbe farlo davanti a soggetti forti come le compagnie petrolifere? Soggetti che, attraverso il loro potere d’influenza, le loro risorse economiche e i loro lobbisti, sono facilmente in grado di forzare a loro favore l’interpretazione delle leggi? E addirittura, come l’inchiesta della magistratura di Potenza dimostra, di interferire nell’attività del governo?
A noi questa considerazione (che si fonda sulla memoria recente) pare sufficiente, da sola, a optare per il sì. Ma non è la sola. I dati tecnici attorno all’inquinamento prodotto dagli impianti esistenti sono controversi, ma l’esperienza ci dice che su questo fronte i titolari degli impianti tendono sistematicamente a minimizzare i dati. Quando Greenpeace diffonde i risultati delle analisi condotte dall’Ispra su campioni di cozze prelevati nelle vicinanze di alcune piattaforme dell’Eni nell’Adriatico, e rivela che la presenza di idrocarburi e di metalli pesanti è risultata superiore ai limiti di legge, siamo portati a crederci. Anche perché se in questa materia vengono diffuse notizie anche appena inesatte, le compagnie petrolifere mobilitano interi uffici legali. Cosa che non accade davanti ai loro silenzi.
Ma in questo referendum (peraltro come in altri referendum precedenti) i fronti contrapposti non sono solo quello del sì e quello del no. Ci sono – negli ultimi giorni hanno assunto anche maggior rilevanza – quello del voto e quello dell’astensione. Benché il non votare, contribuendo al mancato raggiungimento del quorum, produca gli stessi effetti del no, gli schieramenti non coincidono. Per esempio Romano Prodi, che è risolutamente per il no, è anche risolutamente per andare a votare. E non perché ritenga che sia illegittimo non votare.
Come spiega Arturo Parisi nell’intervista con Alessandra Carta, non votare è perfettamente legittimo, ma è anche un modo di manifestare una certa idea della politica. Votare non è un obbligo, ma farlo è aderire a un’altra idea della politica. “Quello che mi preoccupa – dice Parisi – è scommettere sull’astensionismo guidati dalla convinzione che quello che conta è il risultato, comunque lo si raggiunga”.
Benché siamo convinti dell’opportunità di un sì, apprezziamo molto questo argomento del “no votante“. E solidarizziamo con chi si trova in questa paradossale situazione: sostenere una tesi col proprio voto, cioè con l’atto più sacro del rapporto tra cittadini e istituzioni, ed essere visto con diffidenza e anche con un po’ di fastidio da chi sostiene la stessa tesi ma, badando esclusivamente al risultato, vuole affermarla sommando i proprio argomenti ai non-argomenti di chi non va più a votare. Solidarizziamo anche perché siamo certi che una parte considerevole dei fautori del sì, se le parti fossero invertite, proverebbe un analogo fastidio e farebbe la stessa propaganda astensionista che oggi i fautori del “no non votante” fanno.
L’idea della politica di Arturo Parisi (e di Romano Prodi) continua a essere largamente minoritaria nel Paese, nel centrosinistra e nello stesso Partito democratico. Osteggiata dalla ex maggioranza (ora minoranza) come dall’attuale maggioranza (ex minoranza). L’idea che non basta vincere in qualsiasi modo, ma bisogna farlo consolidando i valori di cittadinanza, rafforzando i legami tra i cittadini e le istituzioni. Un leader è liberissimo di non votare e anche di invitare i cittadini ad andare al mare, come fece Bettino Craxi (e la cosa non gli portò fortuna). Ma dovrebbe domandarsi se irridere uno strumento di democrazia qual è il referendum sia coerente con la volontà di contrastare l’antipolitica o non sia invece un modo di alimentarla. E se non sia stata proprio questa la ‘politicizzazione’ più pericolosa dell’appuntamento di domani.
Giovanni Maria Bellu