Lunghi applausi, ieri al Teatro Lirico, per la prima
U n'opera in nero, inquietante, acquatica. Una favola filosofica ricca di simbolismi che decreta il contrasto insanabile tra due universi: quello terreno, abitato da esseri fragili, desiderosi di amore e di potere, e per questo bisognosi di regole, e quello libero e pagano delle Elfe, degli Ondini, dei Fauni, dominato dalla potenza della natura e caratterizzato da una sostanziale innocenza.
Questa in sintesi la morale de “La campana sommersa” di Ottorino Respighi, che ieri sera ha aperto con grande successo la stagione operistica del Teatro Lirico di Cagliari, primo di sei titoli dedicati ad autori italiani. Eppure si sente forte il richiamo europeo, in questo lavoro ispirato a un racconto di Gerhart Hauptmann, ma soprattutto nella musica travolgente che rimanda a Rimskij Korsakov, Wagner, Richard Strauss. Un'orchestrazione perfetta, e un caleidoscopio di suoni, che raccontano la classe raffinata del compositore bolognese. Il direttore d'orchestra Donato Renzetti, ieri sul podio, ha definito con un felice paradosso “una novità del secolo scorso” l'opera, che al Metropolitan di New York, nel 1928, valse al compositore 53 richiami in scena, ma in Italia non è stata rappresentata molte volte. L'ultima, a Trieste, nel 1981. Era un rischio, dunque, proporla, e una scommessa vinta, per il sovrintendente Claudio Orazi e per il direttore artistico Mauro Meli. Ma soprattutto per il teatro, dove ieri sono tornati i critici nazionali (e presto un' importante casa discografica di Monaco di Baviera pubblicherà un dvd).
È stata un successo per tutti: per il direttore, l'orchestra, il coro di Gaetano Mastroiaco, quello delle voci bianche di Enrico Di Maira, per una compagnia di canto di alto livello, dove spiccavano le voci di Valentina Farcas e Angelo Villari, chiamati a sostenere un ruolo vocale davvero impervio. Lei, Rautendelein, l'Elfa bambina che si innamora di un umano, lui Enrico, il costruttore di campane, che per lei abbandona famiglia, fede, onore.
Un'avventura particolarmente stimolante per il regista Pier Francesco Maestrini, lo scenografo Juan Guillermo Nova, il costumista Marco Nateri, il creatore di luci Pascal Mérat, che hanno dato vita ad atmosfere rarefatte, a tratti inquietanti, giocando su dissolvenze ed effetti cinematografici (e cinematografica è a tratti anche la musica), mostrandoci gigantesche lune e ruscelli fiammeggianti, rovine piranesiane e interni gotici. Immersi in atmosfere fuori dal tempo gli esseri ultraterreni, affidati a un Ottocento di elegante sobrietà i pochi umani.
Un'opera dominata dall'acqua. Quella del pozzo dove vive Ondino, e dove troverà rifugio Rautendelein. Quello del lago, dove i dispettosi Fauni fanno precipitare la campana di Enrico, e con essa la sua vita. Sempre nel lago troverà la morte Magda, umana, troppo umana per Enrico, che sogna l'eternità dell'Arte e la giovinezza di Faust. Troverà quest'ultima, grazie all'amore dell'Elfa. Ma per poco. La realtà spezzerà le sue illusioni. L'artista si pentirà, invecchierà, e troverà infine la pace tra le braccia di Rautendelein, bianca creatura di morte. Sorgerà il sole, un giorno, ma intanto la notte è lunga, conclude l'altrettanto lungo libretto di Claudio Guastalla.
Un finale che invita alla speranza, e lascia spazi al dubbio. Come piena di dubbi è in fondo questa favola nera. L'Elfa, con la sua fiammeggiante chioma preraffaellita, sin dalle prime battute non sa da dove viene né dove vada. E poco sa di sé Enrico. Per questo i due si cercano, si trovano, si perdono. Per questo tra i loro due mondi è possibile, forse, una tregua, ma non una duratura convivenza.
Maria Paola Masala