Giorno del ricordo Lo storico Gianni Oliva ieri a Cagliari: «Ci siamo raccontati bugie» Foibe, tragedia nascosta
e il triste esodo dei giuliani
T ra otto e diecimila vittime delle foibe: uomini, donne e bambini gettati vivi nelle cavità carsiche dell'Istria in quaranta giorni tra il 30 aprile e il 12 giugno 1945, a guerra praticamente finita. Trecentocinquantamila profughi fuggiti in Italia a iniziare dal 10 febbraio 1947, giorno della firma del Trattato di Parigi con cui gli alleati vincitori stabilirono i confini tra Italia, Croazia e Slovenia. Partivano tutti. Prima da Zara, poi da Pola, dall'intera Istria, dalla Dalmazia e dalla Venezia Giulia per paura di restare intrappolati nella nuova Jugoslavia comunista di Tito. Un esodo gigantesco. In massa o a piccoli gruppi, intere famiglie o singoli individui che si lasciavano alle spalle per sempre le loro case, le proprietà e le tombe dei familiari nei cimiteri. Esuli e non emigrati, sapendo di partire per non tornare più. Così con poche valigie e pochi soldi, arrivarono in un'Italia uscita dalla guerra a pezzi, impoverita, incapace di accogliere quella marea di profughi disperati che andarono disseminati in 107 campi di raccolta. Tra questi anche il paese fantasma di Fertilia, ancora in costruzione dagli anni Trenta. Ex caserme, scuole, colonie balneari, per lunghi sette anni ospitarono questi 350 mila profughi costretti a vivere in un degrado incivile, emarginati e lasciati in miseria da una patria che proprio non voleva sapere di questi sfortunati connazionali. E le vittime delle foibe? Silenzio assoluto, finiti nel dimenticatoio generale per «ragioni di stato».
Ed è per questo che dal 2004, con la legge 94, il Parlamento ha istituito il Giorno del ricordo che si celebra ogni anno il 10 febbraio (ricorrenza del Trattato di Parigi). Occasione per rievocare in tutta Italia l'immane esodo e la tragedia delle foibe. Anche in Sardegna, soprattutto nelle scuole. Ieri a Cagliari duplice incontro nell'istituto Eleonora d'Arborea e poi nella caserma della Legione dei Carabinieri, quest'ultimo organizzato dal Comando Militare dell'Esercito. Al centro dei numerosi interventi la profonda analisi di Gianni Oliva. Torinese, autore di una trentina di libri, è uno dei più autorevoli storici della nuova generazione che si è lasciata alle spalle i tabù legati alla Resistenza e al recente passato. Tra i suoi filoni di ricerca emerge proprio lo studio della tragedia degli italiani dell'ex Jugoslavia, a cui ha dedicato un importante saggio (“Foibe”, Mondadori, 2002). Per Oliva c'è una sola risposta a tutto questo: «Diecimila infoibati e 350 mila profughi solo perché erano italiani».
«Purtroppo - dice - la storia non si studia abbastanza nelle scuole, nei manuali di questa tragedia si parla poco, qualche riga, o addirittura per niente. Dopo la guerra le colpe furono attribuite a Mussolini e al fascismo, così tutti poterono tornare ai loro posti e ricominciare. Di certo pagarono con l'esilio quei 350 mila profughi, accusati di essere fascisti e fuggiti per il terrore di restare in un paese comunista. Fu un esodo volontario, non ci fu alcun ordine di Tito per cacciarli».
«La verità che abbiamo voluto nascondere per oltre mezzo secolo - sottolinea Gianni Oliva - è che l'Italia uscì sconfitta dalla guerra. Siamo un paese che non ha mai voluto fare i conti con il passato, non ha mai chiesto scusa ed è sempre ripartito come se nulla fosse. Ma la storia ci insegna che chi vince la guerra conquista i territori. Appunto come è accaduto con l'Istria e la Venezia Giulia».
Per Oliva almeno quattro sono i motivi storici che spiegano i silenzi delle foibe e dell'esodo. «Il primo è la ragione politica che ha portato al silenzio internazionale. Nel 1948 Tito rompe con Stalin e diventa il miglior interlocutore per gli occidentali. Così da quel momento nessuno osa più parlare di argomenti che potessero contrariare il leader jugoslavo».
A ruota il silenzio del Pci di Togliatti che non aveva alcun interesse a parlare dei crimini commessi dai partigiani titini e pure dai comunisti italiani delle brigata Garibaldi, come l'eccidio di Porzus. Terzo punto - dice Oliva - bisognava tacere sulle complicità degli stessi italiani che collaborarono con i partigiani titini. Loro facevano sparire la gente nelle foibe, torturavano e uccidevano, ma c'era pure chi indicava le vittime da catturare. Infine il silenzio di Stato: «A scuola non ci hanno mai insegnato che l'Italia ha perso la guerra a fianco dei tedeschi, ma ci siamo sempre raccontati di averla vinta».
Carlo Figari