Teatro. L'attrice porta al Massimo di Cagliari un Voltaire scanzonato e irriverente
Ottavia Piccolo: a 60 anni la fortuna di non fare più televisione
Prendere in mano il libretto che fece vacillare i Lumi (siamo nel Settecento) è stata una liberazione. Abbracciare la commedia dopo tanto teatro d'impegno, una boccata d'ossigeno. Ottavia Piccolo oggi ha sessant'anni e ammette di aver raggiunto una maturità professionale che le permette di poter scegliere liberamente su quali progetti buttarsi. Stop al cinema e alla televisione «perché non sempre sono gratificanti» e più tempo per il teatro. «Impegnato o no, ti costringe - e obbliga il pubblico - a riflettere, anche quando si parte da una storia allegra». E La commedia di Candido , in scena fino a domenica al teatro Massimo di Cagliari (rassegna Cedac) promette di ritrarre la faccia più scanzonata e irriverente dell'Illuminismo, ruotando intorno al Candido di Voltaire.
«Stanchi di affrontare temi cruciali dell'umanità, io e il regista Stefano Fantoni abbiamo chiesto a un giovane autore, Stefano Massini, uno spettacolo leggero. Così il Candido ha assunto una forma brillante, quasi una farsa. Ci divertiamo con il pubblico a mettere alla berlina la casta degli intellettuali perché i filosofi dicono cose straordinarie ma poi possono essere tanto meschini e invidiosi». Diderot, Rousseau, ma anche lo Stato e la Chiesa, tutti coinvolti proprio nell'anniversario numero 250 della scrittura del Candido per un omaggio più che una celebrazione, come annunciato dall'autore, che vede sul palco insieme all'attrice di Bolzano Vittorio Viviani, Massimiliano Giovanetti, Natalia Magni, Francesca Farcomeni, Desireè Giorgetti e Alessandro Pazzi.
Nessun riferimento attuale?
«I personaggi che prendiamo di mira sono cialtroni validi per ogni epoca. Ecco perché Augustine, il mio personaggio, l'unico che non sia realmente esistito, quando entra a far parte del giro e scopre cos'è il Candido si arrabatta per un salvataggio in extremis».
Plaza de Mayo, l'Olocausto, la storia della giornalista russa Anna Politkovskaja: impegno sociale casuale o frutto di un percorso di ricerca?
«Direi casuale, ma in effetti non si può prescindere dalla ricerca di temi più o meno congeniali, vicini a ciò che accade ogni giorno. Anche a teatro bisogna fotografare l'attualità con senso critico, fare delle domande. Certe volte accade in maniera naturale, come nel caso di Buenos Aires non finisce mai , tratto da un testo di Massimo Carlotto, che portammo sul palco qualche anno fa per parlare di desaparecidos. Eppoi, non si poteva far finta di nulla davanti alla storia assurda della Politkovskaja, una personalità che non ha ceduto alle lusinghe del potere nel suo paese a costo della vita. Così come non si può smettere mai di farsi domande sulla Shoah e noi l'abbiamo fatto con Processo a Dio ».
Le domande di cui parla sono più efficaci se affiancate a un testo classico o moderno?
«Personalmente in questo momento sono abbagliata dagli autori contemporanei, ma non escludo niente nella vita. Sono stata molto fortunata perché ho incontrato il meglio nel cinema e nel teatro dunque ho rispetto per tutti».
L'artista più importante?
«Sicuramente Strehler. Con lui partecipai solo a due progetti: uno fu Le baruffe chiozzotte , ma avevo quindici anni e ancora non capivo niente di quello che mi stava succedendo, e poi Re Lear , sicuramente il più rilevante».
A dieci anni interpretò Helen in “Anna dei miracoli”, poi una serie fitta di nomi: da Visconti a Bolognini, da Sautet e Scola a Magni. Solo fortuna?
«A dieci anni sì, solo una questione di casualità ed è stato molto divertente proseguire. Poi sono arrivate le occasioni ghiotte ed è stato impossibile rinunciare. Le scelte vere le ho fatte verso i sedici e diciassette anni e ho preferito continuare a lavorare, anche faticosamente, piuttosto che studiare all'accademia perché ormai la mia carriera era già avviata, prima ancora che me ne rendessi conto».
GRAZIA PILI
26/03/2009