Teatro In scena domani alle 21 al Massimo di Cagliari con Costa, de' Rossi e Pelusio
« L ' aveva detto a tutti. A mia madre, a mia suocera, ai carabinieri, a colleghi di lavoro...Quando ti dico tutti, è tutti. L'aveva detto ai vicini di casa, agli amici del bar...a quelli della sala giochi. Al benzinaio. Ai clienti del salumaio: l'aveva detto pure a loro che mi avrebbe ammazzata. Infatti quando l'ha fatto non si è meravigliato nessuno. Già lo sapevano. Sul giornale hanno scritto un “raptus improvviso di follia”. Ma quando mai. Erano anni che lo diceva ai quattro venti. A me è sembrata una morte annunciata».
Tutto questo - il brano è tratto da “Ferite a morte” - oggi ha un nome: femminicidio. Parola giovanissima per un male antichissimo, da molti considerata brutta, anche se regolarmente formata dal termine femmina e dal suffisso cidio a indicare un delitto, appunto. Verrebbe persino da dire, se non suonasse dolorosamente ironico, una parola pensata finalmente tutta per le donne.
Al di là dell'inutile polemica sulla bruttezza è capita nel suo significato più profondo?
«Può piacere o non piacere. Chiamalo come vuoi, per esempio, bicchiere, ma ci voleva un termine che descrivesse un fenomeno drammatico, senza confini, e il fatto che ci sia finalmente un termine che lo riconosce è molto importante. Le polemiche servono solo a distogliere l'attenzione dai numeri drammatici: una donna uccisa ogni due giorni da chi la dovrebbe amare, proteggere, rispettare. Gli assassini sono mariti, fidanzati, compagni, ex».
Chi parla è Serena Dandini, autrice del libro “Ferite da morire” e regista dello spettacolo con lo stesso titolo, che sarà proposto domani alle 21 al Teatro Massimo di Cagliari, con le attrici Lella Costa, Orsetta de' Rossi e Rita Pelusio, a cura del Teatro del Sale in occasione della III edizione di “Maledonne”, L'Isola del Teatro & L'Isola raccontata in collaborazione con Sardegna Teatro. «Io non ci sarò - avverte - lo spettacolo è perfetto così».
Sono storie di donne uccise alle quali ha restituito vita e soprattutto voce. Fa vivere persone morte. Come è nata l'idea?
«È una provocazione figlia dell'indignazione davanti a un fenomeno sottostimato, non compreso, sottovalutato. Lo spunto è l'antologia di “Spoon River” nella quale Edgar Lee Master fa parlare i morti del piccolo cimitero e ciascuno di loro racconta la sua verità. Io volevo che queste donne uccise potessero dare la loro versione dei fatti, che non fossero più solo cadaveri usati come contabilità oppure oggetto di discussioni dei talk show. È nata così una specie di paradiso sui generis, abitato da sole donne che parlano di se stesse, che hanno energia e colore. Ci sono tutte: dalla bambina schiava che arriva dal Bangladesh alla manager americana. La violenza sulle donne non conosce confini. È una democrazia reale».
E lo spettacolo?
«Volevamo incidere sulle coscienze, sui cuori dell'opinione pubblica, sfruttando la forza dei sentimenti che il teatro procura. Era una scommessa che puntava allo stomaco delle persone, che ci aiutasse a uscire dalla ritualità. È nato il reading, una forma di espressione collettiva, al quale hanno prestato la loro voce non solo star, ma persone comuni, casalinghe, professoresse. Poi amiche come Lella Costa hanno creduto in questo progetto ed è nato lo spettacolo nel quale la parola è protagonista».
Avete la sensazione che l'atteggiamento culturale stia cambiando?
«Nonostante l'orrore che ci circonda voglio essere positiva. In questo piccolo esperimento è stato trovato un linguaggio comune tra le donne di culture e paesi diversi; di certo ha dato un contributo, una spinta, per esempio, a far ratificare dal governo italiano la convenzione di Istanbul; a dare un po' di ossigeno ai centri antiviolenza. Purtroppo non basta. È importante che le donne denuncino le violenze subite».
La presidente della Camera, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, ha premiato Gabriella Taras, laureata sarda per una tesi sulla “Violenza contro le donne immigrate”. Un fenomeno ancora più nascosto?
«Che bella notizia. Questo è un tema molto delicato perché sfata un pregiudizio verso gli immigrati: sono gli italiani a uccidere le italiane. E purtroppo le immigrate sono l'anello più fragile, le più esposte alle aggressioni. Magari sono in Italia senza neppure permesso di soggiorno, senza alcuna protezione». Sole.
Caterina Pinna