L’uso abile delle riprese restituisce alla fruizione spazi urbani inaccessibili
Di recente Voyager di Roberto Giacobbo ha dedicato uno spot, poco meritato, a Cagliari e a un suo luogo arcinoto ma in verità misterioso per cittadini e turisti: il tratto tra i giardini del San Giovanni di Dio, capolavoro di Gaetano Cima, e quelli del Convento dei Cappuccini. Si è visto come l’uso abile delle riprese, la capacità di racconto, la progettualità e mezzi idonei possano restituire alla fruizione spazi urbani altrimenti inaccessibili. Sapientemente evitata la “legnaia” che ancora lo sottrae alla vista, l’Anfiteatro veniva restituito nella sua suggestiva magnificenza. Evitati anche muri e cancellata che lo separano ad est dall’ospedale e dalla via Anfiteatro; ad ovest dal viale Sant’Ignazio da Laconi; a meridione dall’Orto Botanico; a settentrione dal viale Beato fra Nicola da Gesturi se ne percepiva l’antica spazialità, più vasta di quella attualmente perimetrata e occupata dalle strade. Esemplari sul piano didattico le ricostruzione virtuali, prestito da altri anfiteatri. Notevoli le riprese delle gallerie che portano ad un’immensa cisterna che riapre la questione dell’approvvigionamento idrico della città, ossessione, nel XVIII secolo, di Gemiliano Deidda, recente protagonista di un bel romanzo. Riletto dalla forza mediatica l’Anfiteatro fa capire ulteriormente il rango di Cagliari antica e la sua geografia. Ubicato in periferia, a monte del municipium e della zona residenziale; prossimo al porto e al distaccamento della flotta del Miseno; non distante dal persistente centro punico di Sant’Avendrace e dagli aggregati rurali del suburbio, la sua icnografia e la destinazione poco differiscono da quelle delle “arenes” che si diffusero, tra la fine del I secolo av. C. e il I secolo d. C., nelle città con densa presenza militare.
Maria Antonietta Mongiu