Parla Lucio Silvetti, figlio del pioniere che realizzò l'approdo turistico
Cosa succederà, a Marina Piccola, ora che una sentenza della corte d'Appello (la quarta in una vicenda giudiziaria ventennale) stabilisce che 126 metri quadri di terreno sotto la Sella del Diavolo devono tornare al colonnello Ilio Silvetti, loro legittimo proprietario? Si dovrà davvero distruggere un pezzo di strada o il Demanio esproprierà quell'area per fini di pubblica utilità? E i proprietari vogliono davvero quel terreno o puntano a un lauto indennizzo?
Nel suo ufficio all'ospedale Binaghi, dove fa il dirigente medico nell'unità di Anestesia e Rianimazione, Lucio Silvetti sorride e si stringe nelle spalle: «Questi sono aspetti su cui non so dire niente, ci sono dei risvolti giuridici: vedrà l'avvocato».
Se qualcosa ha da dire su quella sentenza, il dottor Silvetti, è che è l'epilogo di una storia che dura da 60 anni: «Cioè da quando mio padre, allora giovanissimo ufficiale dell'Aeronautica militare, ideò, e a partire dal 1961 realizzò, in nome e per conto della Lega navale ma a proprie spese, il primo approdo turistico della Sardegna. È stato un pioniere: il turismo da diporto, nell'isola, non esisteva ancora, e per tutti era “il romano visionario” che buttava soldi al vento». Una storia dolorosa, per la famiglia Silvetti: «Io e miei fratelli a Marina Piccola ci siamo cresciuti. Ogni sabato e ogni domenica eravamo lì a mettere in acqua e tirare in secco 100-150 scafi. Mica yacht: c'era solo piccolo cabotaggio. D'estate vivevamo lì: di quel posto conosco ogni pietra».
La collezione di fotografie, tutte scattate da suo padre, ora ottantacinquenne, è sterminata: Marina Piccola, in bianco e nero, è un avamposto spartano, con casette che ora non ci sono più e una spiaggetta: due operai, in mezzo all'acqua, conficcano un palo che dovrà sorreggere il primo, minuscolo pontile; una piccola gru compare sulla banchina; dove ora passa la strada carrabile c'era una montagna di terra da riporto proveniente dagli scavi per le gallerie militari nella Sella, poi spianata. Quindi, via via, gli edifici: l'officina, che ora è la sede della Lega Navale, e successivamente, attaccato a quella, il capannone che decenni dopo, a metà anni Novanta, fu fatto abbattere. Ora, lì, corre l'ultimo tratto di strada carrabile. È questa l'area di cui la corte d'Appello ha restituito la proprietà a Ilio Silvetti.
«Quando si capì che le cose potevano girare, in tanti si sono voluti infilare a Marina Piccola. Ci sono voluti quarant'anni, ma alla fine sono riusciti a estromettere mio padre». Una botta mai superata del tutto. Lucio Silvetti non intende fare recriminazioni: «Semmai voglio dire una parola di rasserenamento. Però a mio padre sia dato il giusto riconoscimento».
Marco Noce