ADRIANO BOMBOI
La Sardegna ha tre grandi limiti economici interconnessi l'uno agli altri. I primi due riguardano il nostro sistema burocratico e fiscale, in ordine alla capacità di imposizione e di riscossione delle entrate. Il terzo riguarda le attuali ed esigue capacità produttive dell'isola, ostacolate anche da una serie di oligopoli pubblici.
Ad oggi l'indipendentismo si è prevalentemente occupato del secondo problema, promuovendone la conoscenza ed influenzando pure i partiti italiani, ma ignorando i fattori inerenti il primo ed il terzo deficit del territorio. Ecco perché buona parte degli indipendentisti si è orientata nella sola idea di proporre un'Agenzia Sarda delle Entrate come strumento per risolvere i complessi ritardi economici dell'isola, oggi proposta dal governatore Pigliaru. Eppure una sana economia ma anche una concreta sovranità non consiste unicamente nel prelevare tributi e imposte, ma nella capacità di stabilire uno snello sistema impositivo che favorisca il rilancio delle produzioni, dell'occupazione e dei consumi, vera anticamera dell'indipendenza.
Il fenomeno non deve stupirci, per anni un indipendentismo alquanto ideologizzato ha coltivato l'idea che i soldi della vertenza entrate sottratti dallo Stato alla Regione, e inizialmente quantificati in circa 10 miliardi di euro, sarebbero bastati a rendere autonome le sorti della Sardegna. Nella realtà, per quanto sia importante recuperare ogni singolo credito maturato, il 65% del Pil isolano rimane un prodotto della spesa pubblica, dove il denaro dei contribuenti sardi, e soprattutto dei trasferimenti di quelli italiani, contribuisce a tenere in piedi un'economia assistenziale dove le produzioni e i commerci reali hanno un ruolo marginale nelle finanze di tantissime famiglie sarde, che campano prevalentemente di servizi e pubblica amministrazione. Di conseguenza, un sistema in cui il settore pubblico consuma più di quanto il privato, tramite il fisco, riuscirà mai a produrre e pagare, è destinato al fallimento, e non potrà mai essere indipendente finché il settore privato non saprà accrescersi rispetto al settore pubblico (compensando dunque l'alta tendenza ad importare dall'esterno qualsiasi tipologia e volume di merce).
Per comprendere quanto l'Agenzia Sarda delle Entrate sia utile ma non prioritaria bisogna quindi prima capire che in Sardegna non esiste un problema di libero mercato ma il contrario, poiché un'eccessiva presenza del settore pubblico frena lo sviluppo di una sana economia locale non clientelizzata.
Nelle scorse settimane la Giunta Pigliaru ha presentato il ddl per la creazione di un'Agenzia Sarda delle Entrate che, previa approvazione dello Stato, dovrebbe partire nel 2016. Nella lettura del testo in questione non paiono esserci particolari osservazioni da aggiungere al combinato disposto della normativa regionale e statale in materia di riscossione. Il ddl segue la legge regionale 4/2006, mai seriamente avviata, la quale, sulla scorta degli articoli 8 e 9 dello Statuto autonomo regionale, prevedeva la blanda riscossione dei tributi propri, cioè quelli unicamente riservati alla capacità impositiva della Regione. Il nuovo ddl riorganizza la struttura e punta invece a riscuotere anche le cosiddette compartecipazioni, cioè le imposte riservate alla capacità impositiva dello Stato (è Roma infatti, ad esempio, a stabilire l'importo dell'IVA e non la Regione, mentre quest'ultima può esigerne solo una parte). Il problema dunque non nasce nella legittima facoltà di poter pretendere tali extra, ma nella facoltà di poterli riscuotere direttamente senza attendere che sia lo Stato a farlo, rigirando a Cagliari, tardi e male, tali importi. In buona sostanza, l'iniziativa della Giunta Pigliaru non porta all'immediata creazione di una vera agenzia locale delle entrate, ma si limita ad intraprendere il percorso con cui potrebbe essere plausibile arrivarci. E ciò rappresenta comunque un passo importante perché innalza il livello della rivendicazione politica nei confronti dello Stato centrale, rinnovando il percorso di una battaglia che però richiederà compattezza e costanza. Si può quindi affermare che l'iniziativa, per quanto simbolica e non di sostanza, esprime una delle poche note positive di governo dell'attuale maggioranza regionale e della spinta propulsiva offerta dai sovranisti (spesso impegnati ad incrementare la spesa pubblica, allontanando ogni prospettiva d'indipendenza, piuttosto che a ridurla).
Ma l'agenzia si farà? La risposta attiene a considerazioni politiche che travalicano quelle tecniche offerte dal legislatore italiano. Sul piano dottrinario, con sentenza depositata nel 2012, la Corte Costituzionale riconobbe alla Regione la facoltà di esigere il denaro delle compartecipazioni da uno Stato che opponeva tecnicismi burocratici attorno all'eventualità delle norme di attuazione come strumenti per ritardare la restituzione del denaro dei sardi. Ciò nonostante, per risalire alla volontà dello Stato sul tema non si può non considerare l'adozione della controversa legge 42/2009 in materia di federalismo fiscale.
Nel tentativo di dare corso ai principi di autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali sanciti dalla Costituzione (art. 119), la legge 42, al quarto comma dell'art. 27, ha introdotto la concreta possibilità delle Regioni speciali ed ordinarie di accedere, tramite decreti legislativi del governo, alle compartecipazioni di cui sopra. Ad oggi tuttavia l'applicazione di tali principi è rimasta allo stato di lettera morta e pressoché ignorata, anche sui caratteri che avrebbero dovuto animare una diretta riscossione di tali imposte aggiuntive. Ciò è dovuto in larga parte ai mutamenti politici ed economici occorsi in seno alla Repubblica Italiana, sia per l'accrescersi della crisi economica e sia per l'avvicendamento amministrativo di governi che, dietro il paravento della crisi e degli episodi di corruzione registrati presso varie Regioni italiane, hanno ripreso con vigore la tendenza a centralizzare ulteriormente il sistema fiscale, comprimendo l'autonomia degli enti periferici dello Stato. In altri termini, la creazione di una vera agenzia locale delle entrate attiene a decisioni squisitamente politiche, dove esistono serie ma non approfondite basi giurisprudenziali su cui promuoverla, a fronte di un governo tendenzialmente ostile ad una legittimazione dei reclamati principi di autonomia finanziaria.
Nel frattempo, mentre l'Italia ha proseguito la sua antiquata politica centralista, il World Economic Forum ha presentato il report 2015 sulla competitività globale, in cui si è dimostrata tutta l'inadeguatezza delle riforme varate dagli ultimi governi italiani (mentre il debito pubblico dello Stato ha raggiunto una nuova soglia record). L'Italia è il Paese dove ad un aumento della pressione fiscale non corrisponde alcuna flessione del debito pubblico. Più si infilano le mani nelle tasche dei contribuenti e più si sperpera per garantire clientele, disservizi e privilegi, a scapito dell'economia.
Lo Stato si è così trovato in fondo a tutti i maggiori indici di competitività comparati a livello internazionale. Ad esempio, mentre la Svizzera è in testa alla classifica sulle capacità d'innovazione, l'Italia si è posizionata al 39° posto, persino al di sotto del Kenya (33° posto), e del Portogallo (37° posto). Per estensione del marketing si trova al 63° posto, dopo Cile (36° posto) e Sri Lanka (25° posto). Appena al 64° posto per la disponibilità delle ultime tecnologie, sotto Croazia (59° posto) e Porto Rico (20° posto). E pensate, al 113° posto nell'indice dei diritti legali, dietro Bangladesh (43° posto) e Iran (96° posto, non proprio una patria della legalità). Per la disponibilità dei servizi finanziari dedicati agli investimenti, l'Italia si trova al 77° posto, sotto lo Zambia (74° posto) e la Thailandia (28° posto). Per la capacità di attirare talenti, il Paese del nepotismo si stabilizza al 129° posto (Svizzera e Singapore ai vertici), fanno peggio dell'Italia Paesi come il Burundi (138° posto) e lo Yemen (137° posto). La lista potrebbe continuare a lungo, ma emerge certamente l'indice del livello di tassazione nella capacità di creare lavoro, in cui l'Italia col suo regime fiscale si trova al penultimo posto (143°). Fanno meglio persino la Colombia (122° posto) e numerosi Stati autoritari e socialisti.
In conclusione, gli argomenti per riformare uno degli Stati peggiori dell'occidente, e non solo, non mancano. Così come i poteri istituzionali della Sardegna. Sapremo costruire quella piattaforma politica oggi indispensabile per dare corpo ad un programma di riforme che includano ma vadano oltre la semplice riscossione di poche imposte da un territorio in cui nessuno investe?