Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Il mestiere di mamma in terra straniera

Fonte: La Nuova Sardegna
9 marzo 2009

SABATO, 07 MARZO 2009

Pagina 2 - Cagliari

EXTRACOMUNITARIE



Tanto lavoro, poche visite mediche, parti veloci e figli di cui si sa poco



Patologie e disagi in un convegno della Società italiana di pediatria

CAGLIARI. Nascere in Sardegna o nella penisola per i bambini extra comunitari è la stessa cosa. Quando vengono al mondo sono sani, forse un po’ sotto peso. Crescono sanitariamente normali, come i fanciulli sardi e italiani. Le vere malattie sono di tipo sociale. “Patologie da inurbamento” le chiamano i medici di medicina generale, cioè i contraccolpi fisici e psichici provocati dallo sradicamento dal proprio ambiente naturale di vita - clima, affetti, amicizie - per inserirsi, costretti da necessità soprattutto economiche, in un altro mondo. Più che i bambini i problemi li vivono le mamme, che trascurano le visite programmate preparto o la medicalizzazione post nascita, oppure fanno ricorso con frequenza all’aborto.
Forse non è un problema, ma nelle coppie miste (mamma rumena o ucraina, papà sardo) la differenza di età e cultura molte volte è notevole. Anche questo un segno dei tempi e dell’incontro di due situazioni di disagio: povertà e solitudine.
Un importante contributo all’integrazione etnica e culturale è venuto dal convegno “I pediatri e i bambini delle nuove etnie in Sardegna”, organizzato dalla sezione regionale della Società italiana di pediatria. I sardi ora dispongono di nuovi elementi per capire meglio il microcosmo degli extracomunitari e gli amministratori pubblici ulteriori aggiornamenti per calibrare interventi di politiche sociali. “Sappiano poco di questi bambini - dice Maria Francesca Vardeu, vice presidente dei pediatri sardi - spesso neanche il loro numero. Le differenze culturali, in particolare le abitudini alimentari o l’approccio alla patologie più frequenti in età pediatrica, la prevenzione di patologie genetiche, anche perché frequenti i matrimoni tra consanguinei, comportano una continua mediazione e una maggiore attenzione tra le esigenze sanitarie e di prevenzione”.
Non un normale stakanovismo, ma più realisticamente la necessità di lavorare sempre e comunque, spinge molte donne immigrate a presentarsi all’ospedale solo quando il bambino sta per nascere. Stessa causa giustifica il ricorso alle dimissioni volontarie della puerpera entro il primo giorno, anziché aspettare i “normali” tre-quattro previsti dai protocolli. Sembra che le più “veloci” siano le donne cinesi che tra il 2003 e il 2008 si sono presentate 74 volte nella sala parto della sezione di clinica ginecologica operante al “san Giovanni di Dio”. Questo ospedale negli ultimi sei anni ha registrato 289 parti (il 4 % del totale) di donne di etnia straniera. Età media delle partorienti 28,9 anni: la più giovane una ragazza rumena di 15 anni, la più “anziana” una signora olandese di 43. Il 67% partorisce spontaneamente, il 29% attraverso taglio cesareo. Percentuali quasi simili registrate anche dal “Nido del SS. Trinità”, che conferma la differenza in sala travaglio tra italiane e immigrate: quasi la metà delle prime ha un parto cesareo contro il 38,8% delle seconde.
Distratte o forse poco inserite nel tessuto sociale le molte donne d’altra etnia (33%) rimaste lontane da esami medici in gravidanza: 11 rumene su 17, 7 filippine su 12, 6 cinesi su 16, 4 ucraine su 8. Un esercito in rapporto all’1% delle italiane. Alto tra le immigrate anche il numero di aborti: 8,8% contro il 3,1 delle donne sarde. Scelta di vita spontanea o condizionata da povertà e ritmi di lavoro che non consentono pause e interruzioni neppure per mettere al mondo e accudire una nuova creatura? La risposta agli esperti e agli amministratori pubblici.
Mario Girau