Storia. I bimotori Marauder nei raid dell'aeronautica militare americana sul capoluogo
Il 28 febbraio 1943, all'uscita dalla messa, la tragedia del terzo bombardamento
Nei primi giorni del mese di febbraio 1943, il pomeriggio di domenica 7, venne sferrato dai velivoli americani di stanza nelle basi del Nord Africa il primo attacco aereo sulla Sardegna. Ai già famosi B17 quadrimotori “fortezze volanti” vennero affiancati i bombardieri bimotori B 26 Marauder (predone, appunto) che sarebbero stati nelle successive incursioni sulla Sardegna e in genere nel teatro del Mediterraneo i velivoli maggiormente impiegati dalla Aeronautica Statunitense.
Compariranno insieme alle già note bombe di medio e grosso calibro (general purpose-da demolizione) dei nuovi ordigni, le cosiddette Daisy Cutter (tagliamargherite) micidiali per l'impiego sui grossi concentramenti di truppe o di persone, che esplodevano al minimo impatto, irradiando quasi rasoterra i loro mortali grossi scheggioni. Le prime bombe lanciate dai velivoli dello Zio Sam sull'Isola caddero dunque la domenica sull'aeroporto di Elmas producendo danni pesanti ai velivoli e alle attrezzature; ben 51 i bombardieri impiegati tra B 17 e B 26 Marauders oltre un nutrito gruppo di caccia di scorta. Il 17 febbraio, mercoledì, venne nuovamente colpito il campo di Elmas ed in contemporanea quello di Decimomannu, mentre una terza formazione alla ricerca del campo di Villacidro rilasciava il suo carico di bombe su Gonnosfanadiga lasciando dietro di sé una imponente scia di sangue.
Anche Cagliari figurava tra gli obiettivi dell'operazione programmata dal XII Comando Bombardieri Americano, con l'impiego complessivo di 135 velivoli tra fortezze volanti B 17, bimotori Mitchell B 25 e Marauders B 26 oltre i caccia di scorta P 38 Lightning; in città, poco dopo le 14 senza alcun segnale d'allarme, piovve la grandinata di spezzoni seguendo la direttrice via Nuoro, viale Bonaria, viale Diaz sino alla base navale, mentre altra nutrita pioggia di spezzoni si abbatteva sullo spiazzo antistante la chiesa di San Michele, nella via Santa Restituta e San Efisio sino al viale Cammino Nuovo, piazza Indipendenza, viale Terrapieno, via San Giovanni e la zona di Genneruxi.
I dati ufficiali (bollettino n. 999) parlavano di gravi danni alle abitazioni di Cagliari, Quartu e Gonnosfanadiga e di 100 morti e 255 feriti fra la popolazione. Malgrado gli evidenti tragici mutamenti dell'offensiva aerea nemica, non più diretta ai soli obiettivi militari, si continuava a sperare che anche Cagliari sarebbe stata risparmiata da più gravi offensive aeree e sarebbe stata considerata come si diceva “città aperta”.
Le scuole di ogni ordine e grado erano ancora aperte, come pure gli uffici pubblici e i negozi non colpiti dalle bombe; contro questa speranza si diffondevano le voci allarmistiche di chi aveva letto i manifestini lanciati insieme alle bombe dagli aerei americani, che invitavano la popolazione ad abbandonare i centri abitati con particolare riguardo a quelli vicini ad obiettivi militari: anche alla radio non mancavano gli inviti a sfollare nei paesi e nelle “belle campagne” della Sardegna.
La sera l'ottimismo lasciava il campo allo sgomento aumentato dall'oscuramento sempre più severo. Ancora il venerdì 26 febbraio una formazione di 19 B. 17, che non aveva potuto effettuare il previsto bombardamento sui porti della Sicilia per le cattive condizioni del tempo, si diresse su Cagliari, suo obiettivo alternativo, dove si presentò intorno alle 15,30 proveniente da Capo Carbonara. A parte qualche bomba sull'aeroporto di Elmas il grosso delle distruzioni e la maggior parte delle vittime si ebbe nel centro: particolarmente distrutta risultò la zona di Stampace (piazza Yenne, via Sant'Efisio, via Santa Restituta, l'Ospedale Civile, viale Fra Ignazio), via Roma lato Ferrovie dello Stato, il Palazzo Municipale, il Bastione. Il sempre scarno bollettino n. 1008 del giorno dopo parlava di notevoli danni, 73 morti e 286 feriti tra la popolazione; fu questa incursione che con le sue estese rovine, il gran numero di vittime, il conseguente blocco di quasi tutti i principali servizi urbani, come la corrente elettrica, il gas, l'acqua, i tram e in parte le ferrovie, rese chiaro a tutti che ogni ottimistica speranza per l'immediato futuro doveva essere abbandonata; i soliti bene informati cominciarono a parlare di un possibile sbarco da parte degli Alleati, ormai nostri vicini casa, dopo i consolidati insediamenti sulle coste del Nord Africa; molti lasciarono la città con i pochi treni disponibili, specie quelli gestiti dalle Ferrovie Complementari, e dettero inizio a quell'esodo massiccio e disperato verso i paesi dell'interno.
In un quadro così tragico dopo due giorni si arrivò alla domenica del 28 febbraio, con una freddissima, splendida giornata di sole. Favorita dal bel tempo, la città sembrò rianimarsi: si vide abbastanza gente per le strade, e quasi una moderata ressa per la messa di mezzogiorno nella Chiesa di San Francesco, via Roma; intorno alle 12,45, mentre le persone si apprestavano quasi di malavoglia al rientro nelle freddissime case, venne percepito dai più attenti quel rumore basso e profondo, quasi bitonale che si diffondeva con maggiore intensità, in costante avvicinamento: una compatta formazione dirigeva sulla città. Quando ormai i bombardieri erano sulla verticale del porto, si udirono i tre colpi di cannone, al posto delle sirene d'allarme inutilizzabili, seguiti dai bang secchi delle prime esplosioni. Le bombe caddero sull'area portuale, sull'alberato della via Roma, sulla stazione delle autolinee e su quella ferroviaria, abbattendo ripari paraschegge, vagoni ferroviari, carri a trazione animale e moltissime persone.
Dopo il passaggio della prima formazione, trascorsero una decina di lunghissimi minuti senza il fragore delle esplosioni. Anche la contraerea aveva smesso di sparare e i superstiti credettero che il peggio fosse passato; l'illusione finì ben presto per il ripetersi ancora più forte dell'uragano: altre bombe caddero da una seconda formazione che si presentò dal mare puntando sulla città lungo la direttrice Monte Urpinu, piazza Garibaldi, Torre di San Pancrazio, Giardini Pubblici e Castello. Pur meno sanguinosa, questa seconda ondata fu avvertita come più terrificante della precedente, e dette la sensazione che il nemico si accanisse per arrivare alla distruzione totale; soltanto dopo oltre un'ora dalla fine dell'incursione una moltitudine di persone, inebetite, abbandonarono i ripari e si accalcarono nei rifugi. Moltissimi pur nella più totale oscurità ormai calata ed aggravata dalla polverosa caligine dei crolli, si avviarono con ogni mezzo, i rarissimi veicoli a motore, carri, carrette, carriole, biciclette, e a piedi, in ogni direzione verso l'interno pur di abbandonare quell'inferno.
L'incursione, venne sferrata dall'intera Forza da Bombardamento pesante della Strategic Air Force con entrambi i Gruppi di Fortezze Volanti B 17 e relativa scorta di caccia: in tutto 101 velivoli di cui 49 quadrimotori e 52 caccia P.38 bimotori; questa volta vennero impiegate al posto delle normali bombe da demolizione, quelle già descritte con spoletta ad azione istantanea, le cosiddette Daisy Cutter. Di questa sanguinosa giornata, la più cruenta in Sardegna per numero di vittime civili, il bollettino n. 1010 così dava notizia: «… accertati finora 200 morti e qualche centinaio di feriti… 3 velivoli sono stati abbattuti dalla nostra caccia 2 al largo di Capo Spartivento ed 1 poco a sud della Sardegna». In realtà i morti furono circa 500 e i feriti oltre 1.200; in tutto il tragico mese di febbraio dove si ebbe il numero massimo di allarmi mensili per tutta la durata del conflitto, si può parlare di circa 700 morti e circa 2200 feriti.
MARCO CONI
28/02/2009