Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

La vita, un lieve gioco da clown

Fonte: La Nuova Sardegna
26 febbraio 2009

GIOVEDÌ, 26 FEBBRAIO 2009

Pagina 37 - Cultura e Spettacoli



«Slava’s snowshow» al Massimo, la clownerie diventa grande teatro



L’intreccio raffinato di differenti livelli espressivi, nel segno della semplicità

ENRICO PAU

Ci sono spettacoli che non vogliono finire. Così è per «Slava’s snowshow», che martedì notte ha innaugurato, organizzato dalla Cedac, il Teatro Massimo salvato dall’oblio. Alla fine il pubblico non vuole lasciare le sue sedie. Rapito. Completamente sedotto dalla magia, termine abusato ma che qui bisogna rispolverare, insieme a tutto il campionario di luoghi comuni da spendere sempre di fronte alla grandezza, all’arte antica e insieme semplice di questi artisti, di questi clown le cui storie come i destini si incrociano seguendo traiettorie imponderabili.
Clown di scuola russa, americana, europea, tutti insieme per fare poesia. Altro termine fin troppo usato quando ci si trova di fronte a prodotti come questo spettacolo che si colloca in un territorio che va singolarmente oltre i generi, che smantella dall’interno l’idea stessa di spettacolo, delle sue regole che appaiono immutabili fino a quando non finiscono nelle mani del genio. E questo è in fondo il termine che va usato per Slava, colui che ha inventato tutto ciò, che non è in scena perché il suo ruolo è come lo scettro di un re delle favole, passa di mano in mano, ma solo fra grandi artisti. Martedì sera sul palcoscenico di Cagliari era Arthem Zhimolokov a vestire la tuta gialla e il naso rosso di Slava, a incantare gli spettatori con quel suo corpo che si allunga e si accorcia tradendo tutte le leggi della gravità e usando solo le leggi della perfezione.
Per parlare di questo spettacolo bisognerebbe scomodare Chaplin, Buster Keaton, Oleg Popov Grock, tutti i grandi di quell’arte antica che è la clownerie, ma si farebbe torto a Slava e al regista Viktor Kramer. Quando vedi gli spettatori diventare bambini, regredire felicimente, naugrafare dolcemente dentro un’infanzia ritrovata, allora è successo il miracolo. Il miracolo della semplicità, perché la semplicità è il dono più grande dello «Slava’s snowshow». La semplicità della neve di carta che cade sulla scena che invade la platea, delle luci magiche che calano dall’alto come pianeti sconosciuti, degli enormi globi colorati che alla fine invadono la scena. Come dimenticare il vagare malinconico delle strane figure avvolte in larghi cappotti verdi, che citano gli esseri umani nella loro poetica fragilità, mezzo uomini e mezzo angeli, che travolgono il pubblico salendo sulle sedie della platea al ritmo della musica brasiliana, minandone il ruolo di quieti spettatori per farne nuovi protagonisti, scoperti a colpire al volo i palloni lanciati in aria come bambini, travolti dalla gioia.
La scena è fatta di fondali ora scuri come un cielo stellato, ora bianchi come una steppa innevata. E’ difficile fissare nella memoria i momenti più belli di questo viaggio che ti accompagna singolarmente in territori che appaiono lontani inavicinabili come quello metafisico, pieno di domande, e quello popolare e carnevalesco che rimanda alla tradizione di una Commedia dell’Arte, passata però per le mani di un raffinato artista di quella scuola circense, prima sovietica e poi russa, che ha regalato alla cultura europea l’idea di un teatro che ha bisogno solo del corpo dell’attore, un corpo che dentro porta tutti i segni di un’umanità segnata dalla malinconia che ancora ha bisogno di stupirsi come un eterno bambino. Indimenticabili Vania Polunin, figlio di Slava, Scott Derek, Jeff Johnson, Yury Musatov, Francesco Bifano e la piccolissima Tatiana Karamisheva, che respira già a quattro anni l’aria pura e rarefatta del grande teatro.