Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Quanti Loman incontriamo nei nostri viaggi

Fonte: L'Unione Sarda
22 aprile 2015


Su il sipario Ultimo appuntamento con la prosa del Massimo 

 


L e pagine di Arthur Miller e la regia di Elio De Capitani, per lo spettacolo di chiusura della stagione della CeDac. Al Teatro Massimo di Cagliari, si debutta questa sera.
“Morte di un commesso viaggiatore” è datato 1949. Era appena iniziata la Ricostruzione. Non bastava neanche allora guadagnarsi da vivere senza aspirare al successo?
«La vicenda di Willy Loman ci tocca perché il tema non è la crisi economica ma l'inadeguatezza di chi vede un mondo che cambia e capisce che i figli non avranno sorte migliore della sua. Oggi chi fa certi mestieri, penso ai giornalisti e ai bancari, si sente spiazzato. Studiando il testo ho misurato l'intensità di questi argomenti, mi sono accorto di quante menzogne vengono dette nel nome della dignità. Far percepire questo in teatro è un miracolo».
Linda, la moglie del Salesman, è tanto più protettiva quanto più disperata. È sincera?
«La sua forza sta nel ricordo della felicità passata. Non capisce perché sia tanto importante conquistare il mondo. Ha una visione modificata dall'amore per il marito ma mantiene il contatto con la realtà. Dopo anni di pazienza e di sacrifici, hanno finito di pagare le rate e i debiti. Sarebbe il tempo del riposo e della tranquillità: non ha più voglia di inutili discussioni».
Nella famiglia Logan, la menzogna è un'arma di difesa?
«Sì, una difesa patologica. Fantasticano per esistere. Willy è stato licenziato, ha finito la sua riserva di storie. Recita per gli altri ma non dimentichiamoci che la finzione può essere anche creatività. Tutti noi, del resto, ci costruiamo un'immagine. Siamo quello che facciamo finta di essere».
Willy non sopporta che Linda si rammendi le calze. Sono le piccole cose a dare la misura della miseria?
«Non è solo questo, più forte è il senso di colpa per tutte le calze regalate all'amante. Preziose, due paia ogni quindici giorni. Simboleggiano il tradimento, perché costavano parecchio».
Biff e Happy, i figli, sono due deboli illusi?
«Sono molto diversi. Il primo vuole diventare adulto, andare via. Il secondo è pericoloso, si arrangia con bustarelle e soffre di invidia sociale».
Il testo dà indicazioni precise sulla messa in scena. Una gabbia, per chi lo affronta?
«Una magnifica opportunità. Ho voluto scenografie e luci in movimento, niente sta fermo, neppure un muro, tutto è liquido per restituire la consistenza del sogno. Il cinema ricorre ai flash back, noi sul palco dobbiamo rendere i ricordi simultanei dei protagonisti, i loro dialoghi spezzati, i loro pensieri. Ho cercato di tratteggiare con delicatezza i personaggi, ho cercato nei loro caratteri la gratitudine, il rispetto, il senso dell'amicizia. Ho scelto una strada difficile».
Lei, nelle sue bellissime note, scrive: “sento e vedo tanti Willy Loman nei miei viaggi”. Da cosa li riconosce ?
«In uno scompartimento ferroviario, o al bar, le persone si sentono fuori controllo e si esibiscono, rivelando autentica vocazione narrativa. Nessuno può contraddire le loro vanterie o mirabolanti imprese. Parlano, parlano».
Alessandra Menesini