Palazzi crollati o danneggiati nei rioni Marina, Castello, Stampace e Villanova
Dopo 72 anni la città mostra ancora i segni della guerra
Come in ogni grande spettacolo, e fu spettacolo di morte e distruzione, ci furono le prove generali. Gli Alleati americani, inglesi e canadesi, con le loro aviazioni, le fecero per tre giorni a partire dal 16 febbraio 1943. Il bombardamento più violento di queste “avvisaglie” (dopo, arriverà perfino di peggio) fu l'ultimo, quello del 18: viale Diaz, via Sant'Eulalia, Santa Restituta, via Fara, Villanova tennero compagnia nella disgrazia a Gonnosfanadiga, che pagò un altissimo tributo di vittime. La contabilità di quelle giornate fu di 209 morti (165 civili, 44 militari) e centinaia di feriti. Ma erano, appunto, le prove generali, perché il Capoluogo fu quasi raso al suolo tra il 26 e il 28 febbraio: dopo le incursioni della Naaf (Northwest African Air Force) al comando del generale americano Carl Spaatz, si celebrarono i funerali di 411 civili e di 189 militari. Migliaia i feriti, i mutilati, le persone la cui psiche cedette senza mai riprendersi. Migliaia anche le case ridotte in macerie a Castello, alla Marina, a Stampace, a Villanova. Seguirono altri bombardamenti: il 31 marzo fu presa di mira la logistica di via Roma (porto e stazione) e fu danneggiata la chiesa del Carmine. La statua della Madonna, al centro della piazza, fu girata di 20 gradi dallo spostamento d'aria. Poi, il 13 maggio, quel che rimaneva di Cagliari fu sbriciolato.
LE FERITE Al di là delle celebrazioni sempre importantissime (oggi alle 11 la messa di suffragio a San Francesco da Paola in via Roma e il ricordo dei Caduti nell'androne del Consiglio regionale), che cosa resta delle stragi di 72 anni fa, portatrici - paradossalmente - di libertà e orrore insieme? Restano le ferite architettoniche, i “vuoti urbani” (cioè i palazzi crollati e mai ricostruiti), che sono insieme cicatrici urbanistiche da sanare, ma anche il segnale più forte di quale orrore sia la guerra. Quelle ferite architettoniche sono da anni oggetto di studio di Roberto Murgia, un reumatologo appassionato di storia di Cagliari, cicerone in questo tour dei bombardamenti.
CASTELLO Di quei bombardamenti, resta lo spettro del fastoso (fino al '43) Palazzo Aymerich, in via dei Genovesi, mai recuperato anche per via di un contenzioso giudiziario e sottratto alla città assieme al Portico Laconi, che portava a via Lamarmora. O il Teatro Zapata, che l'omonima famiglia spagnola donò al Comune per farne il Civico di via De Candia ora riaperto, ma solo d'estate perché manca ancora il tetto: era un complesso enorme, venne giù tutto. Castello, ancora, è ferito dove via Canelles incontra piazza Carlo Alberto: un piccolo parcheggio è ciò che resta di due palazzi centrati dagli “spezzoni” degli aerei alleati, e anche in quel caso venne giù un portico: il Vivaldi-Pasqua. Si vedono ancora gli intonaci delle stanze, sui fianchi dei palazzi adiacenti, e s'intuisce che un ballatoio li collegava tra loro. E poi, chi da viale Regina Elena sale in ascensore (quello dell'ex sede de L'Unione Sarda) giunge in piazzetta Mundula, ricavata dove non ci sono più i palazzi che lì sorgevano fino al '43. Mancano pure quelli di fronte, le cui macerie si possono osservare da piazza Palazzo. In realtà, l'intero rione di Castello fu martoriato, come testimonia l'alternanza tra case originarie e gli alti palazzi anni Cinquanta, figli di una frettolosa ricostruzione il cui scopo era ridare un tetto a famiglie mutilate, nel migliore dei casi sfollate.
MARINA Pagato un tributo altissimo anche dal quartiere che dà su via Roma, la strada in cui si innalzavano barriere di legno per evitare che le Daisy-bomb (che sparavano le schegge orizzontalmente per maciullare le gambe) ferissero i passanti. A fianco a Sant'Eulalia, in via dei Pisani, dove c'era un palazzo ora c'è un parcheggio. In tutto il rione ci sono stabili anni Cinquanta (ricostruzione): soprattutto in via Lepanto, molto martoriata. Il primo maggio del '43, la statua di Sant'Efisio fu comunque portata in processione sul furgone del lattaio Gorini, padre del giornalista Puppo scomparso di recente.
VILLANOVA Le bombe non risparmiarono la chiesa di San Domenico: i tedeschi cercarono riparo lì, invano. Fu distrutta e ricostruita. Di fronte, un “vuoto urbano” lasciato da un palazzo bombardato è ora un'area incolta. In via San Domenico, al civico 100, il rudere di una palazzina è congelato al 1943, mentre in piazza San Giacomo fu ricostruita la palazzina sventrata da una bomba, nella quale un pianoforte a coda restò in bilico tra il pavimento e il vuoto. Nelle vie Piccioni e San Domenico non mancano case di stili diversi, affiancate: quelle non originali sono frutto della ricostruzione. Il rione fu bersagliato pesantemente.
STAMPACE Non si riusciva a concludere la costruzione della chiesa (« sa fabbrica 'e Sant'Anna », si dice non a caso), ma nei primi anni Quaranta finalmente il cantiere chiuse. Poco più di un anno dopo la chiesa divenne un cumulo di rovine, e fu poi ricostruita. Il campetto da calcio in via Santa Margherita fu un modo per recuperare un'area ridotta in macerie dai bombardamenti alleati. Decine di persone morirono davanti alla Cripta di Santa Restituta, dove non riuscirono a entrare perché quel “rifugio antiaereo” era strapieno. Paolo Matta, giornalista stampacino, racconta che la grotta dell'ex Clinica Aresu divenne un riparo per la gente del rione durante i bombardamenti, proprio come la Cripta. Lo ricorda anche un'iscrizione incisa da chi vi trovò riparo: “ Questa grotta già carcere S. Restituta servì da ricovero antiaereo nella guerra contro gli angli, russi, americani ». La firmò tale “Secchi Gaetano”. C'è ancora. In un certo senso, fa parte della cicatrici.
Luigi Almiento