Due minatori di Carbonia furono tra i primi a scoprire l'orrore delle foibe, calandosi sul fondo della cavità carsica nella località Goglia di Vines, all'epoca comune di Arsia e oggi di Albona. Era la fine di ottobre del 1943. I nazisti con l'operazione "Nubifragio" avevano ripreso il controllo della Venezia Giulia, dell'Istria e della Dalmazia che dopo l'8 settembre erano finite nelle mani dei partigiani di Tito. In meno di due mesi i comunisti avevano rastrellato molti italiani e non solo tra i fascisti. Catturati nei luoghi di lavoro e nelle abitazioni, vennero imprigionati e poi uccisi. Militari, finanzieri, marinai, maestri elementari, impiegati comunali e minatori. Bastava essere italiani per finire nella lista nera. Nei giorni seguenti l'armistizio le truppe italiane si erano ritrovate nel caos, disorientate e senza ordini mentre i veri fascisti si erano nascosti temendo il peggio. I partigiani titini, armati sino ai denti e sempre più numerosi, erano venuti allo scoperto circolando con spavalderia nei diversi centri dell'Istria e in particolare nelle zone del bacino carbonifero della società Arsa. Così erano cominciati i primi infoibamenti di massa che causarono centinaia di vittime. Le stragi dell'autunno del 1943 furono solo un assaggio. Il grande massacro avvenne nel maggio del 1945, con la guerra appena finita. In questa seconda ondata di orrore i morti furono migliaia. Secondo le stime ufficiali almeno cinquemila, ma forse più. Oggi si celebra la "Giornata del ricordo", per non dimenticare la tragedia delle foibe cancellata per mezzo secolo dalla memoria collettiva. È stata necessaria una legge, nel 2004, per riesumare un vero genocidio che lo Stato italiano dai tempi della "guerra fredda" aveva nascosto in nome del buon vicinato con la ex Jugoslavia.
La signora Lina Radioni, vedova Fierli, ricorda molto bene quella pagina di storia che ha vissuto da vicino insieme alla sua famiglia. All'età di 85 anni abita a Carbonia dove è arrivata nel 1945 in fuga dall'Istria. I due minatori di Carbonia che furono tra i primi a calarsi nella foiba dei Colombi, a Vines, erano il marito Dino e il suocero Giuliano Fierli. Entrambi tecnici specializzati erano dipendenti della Società Carboarsa che operava nel bacino carbonifero dell'Istria gestito dall'A.Ca.I. (Azienda Carboni Italiani). L'altro bacino era quello delle miniere sarde di Carbonia. Nel 1938 Giuliano Fierli era caposervizio a Bacu Abis e lavorava nella squadra impegnata nello scavo delle gallerie di Serbariu: qui, il 14 gennaio, accadde un incidente costato la vita a cinque minatori. Fierli, accusato ingiustamente del disastro con altri tecnici, preferì emigrare in Istria. Negli anni seguenti fu raggiunto da decine di minatori dell'A.Ca.I., trasferiti all'Arsa perché inutilizzati nei pozzi del Sulcis. Molti furono tra le vittime delle foibe.
A ricostruire pazientemente l'odissea dei minatori del Sulcis è il ricercatore Mauro Pistis che da dieci anni scava nei documenti dell'A.Ca.I. e negli archivi degli ex territori italiani dell'Adriatico. Grazie al racconto della signora Radioni, lo studioso di Carbonia è riuscito a ripercorrere le tappe che dal Sulcis portano ai pozzi dell'Arsa. Lina Radioni (dal croato Radovich italianizzato nel 1927) era nata a Càrpano, frazione di Albona, nell'Istria sud orientale. Frequentò le scuole italiane e a 19 anni sposò il minatore sardo Dino Fierli, giunto in Arsa col padre Giuliano. «Sino all'agosto del 1943» ricorda l'anziana donna «la vita trascorreva in apparente tranquillità nel bacino dell'Arsa, con numerosi arrivi e presenze di minatori e tecnici provenienti da tutta Italia e in particolare dal Sulcis. Dopo l'8 settembre un minatore della squadra di Giuliano Fierli, diventato capo partigiano, con una scusa convocò mio suocero e mio marito in un ufficio della miniera e li fece arrestare. Li rinchiusero nel carcere di Albona. Per una settimana mi recai tutti i giorni per portargli da mangiare. Lungo il tragitto vidi diversi italiani impiccati, alcuni li conoscevo. Un giorno tutti i prigionieri furono caricati sui camion e portati via. I miei familiari furono salvati all'ultimo momento grazie all'intervento di mio padre che aveva diversi amici tra i capi comunisti. I loro nomi furono depennati dalla lista. Gli altri, invece, furono legati in fila e precipitati in mare con una grossa pietra al collo».
A metà ottobre i nazifascisti rioccuparono la Venezia Giulia, l'Istria e la Dalmazia. Finito un massacro, ne cominciava un altro con i tedeschi scatenati nelle rappresaglie. Ripreso il controllo delle miniere si contarono morti. Così si avviarono le ricerche nelle zone delle foibe dove si dicevano fossero finiti gli scomparsi. Tracce di sangue e testimonianze portarono in cima alla foiba dei Colombi. I militari tedeschi, con le autorità locali, consentirono ai tecnici specializzati della Carboarsa di calarsi sul fondo con scale di corda. «Mio suocero e mio marito scesero sino a 150 metri e videro qualcosa di terrificante. C'erano ammassati tanti corpi, cadaveri nudi e legati l'un l'altro». Vines fu la prima foiba in assoluto ad essere ispezionata. Portarono fuori 84 salme, quattro erano donne. I prigionieri erano stati in gran parte torturati, poi legati col fil di ferro e gettati nella cavità. I primi della fila abbattuti a colpi di mitra si trascinarono appresso, ancora vivi, tutti gli altri. Per finire l'opera i partigiani lanciarono bombe a mano. Unico superstite Giovanni Radeticchio che raccontò la sua tragedia. Due i sardi riconosciuti: Emanuele Piras e Pietro Mura, dipendenti della Carboarsa.
«La signora Lina - conclude Mauro Pistis - e i Fierli, non sentendosi più sicuri, alla fine di ottobre lasciarono l'Istria con un permesso speciale. Raggiunsero prima Trieste e poi Firenze dove rimasero bloccati dalle vicende della guerra. Solo nel febbraio del 1945 riuscirono ad imbarcarsi e ad arrivare in Sardegna». In quel maggio, appena finita la guerra, in Istria ritornarono i titini. E le foibe si riempirono di migliaia di italiani.
CARLO FIGARI
10/02/2009