Commento
M. F. Chiappe
I genitori sono obbligati a portare i figli a scuola, i bambini devono frequentare le elementari e poi le medie e le superiori almeno fino ai sedici anni. Un dovere e un diritto. Se fra i due si frappone un problema, per esempio un compagnetto troppo vivace, le istituzioni scolastiche devono intervenire per risolverlo. E pure in fretta, molto in fretta, affinché il diritto di quel bambino diventato problema non venga calpestato dalle proteste dei genitori degli altri alunni né dalla paura di suo padre e sua madre che, di fronte al muro eretto dagli altri («in classe o lui o i nostri») preferiscono tenere il figlio a casa.
A dieci anni non si può restare venti giorni chiuso fra le mura domestiche in attesa che qualcuno intervenga. E mette angoscia la protesta organizzata dagli adulti addirittura in un asilo, per un bambino di cinque anni. Cinque-anni-cinque. «Pericoloso». A cinque anni? A otto anni? A dieci anni? Bisogna stare attenti con le parole: quei bambini vivaci, difficili, problematici e via con tutti gli aggettivi politicamente corretti, sono i primi ad aver bisogno della scuola, dei compagni, degli insegnanti, perché forse a casa hanno famiglie inadeguate, genitori a loro volta vivaci, difficili, problematici. Quei bambini, che colpa hanno? Concetti addirittura banali che, però, si scontrano con la tensione al bello, preciso, perfetto: non si può puntare al meglio se vicino qualcosa o qualcuno frena.
Invece no. Non può e non deve funzionare così. Ed è assurdo che debba intervenire la magistratura per risolvere un problema che dovrebbe star lontano dalle aule di giustizia. Se la scuola ancora esiste, per favore, batta un colpo.