Poi capita che una mattina parti da Roma prestissimo, dopo esserti svegliato in un appartamento del Pigneto, avere fatto colazione in un piccolo bar di quel quartiere proletario e d'immigrazione (affollato, colorato, multietnico, gentrizzato, di moda e malfamato, amato e odiato, quartiere di una Roma che sembra sempre in un altro tempo eppure è una città grande dell'oggi, pulsante di contraddizioni e problemi, doppi e tripli strati sociali e la fatica di convivere tra diversi); capita che stai facendo colazione e la barista ti dice, come capita decine di volte ogni settimana: «Ma che, sei sardo? Quant'è bella la Sardegna, mortacci vostri». E tu devi andare a Cagliari, e attraversi la città eterna su un tram carico di studenti e lavoratori, e come sempre pensi che questo posto è casa tua ed è bellissima (non solo per il suo centro storico, non solo per le strade dei turisti, ovunque, sempre, persino qui allo Scalo di San Lorenzo, persino in questo traffico da incubo); capita che tutta la mattina ti risuona quella frase nelle orecchie, «Quant'è bella, li mortacci»; ci pensi a Termini, a Fiumicino, a Elmas quando atterri, a Uta quando entri a casa dei tuoi e c'è un sole splendente e il giardino di tua madre è un trionfo, come l'orto botanico di una capitale d'oriente del vecchio impero britannico, tua madre e tuo padre stanno lì a prendere il sole di metà ottobre e tutto è colori e fiori e odori fortissimi di rose e menta e basilico, e poi vai al Poetto, da solo, perchè è metà ottobre ma ci sono ventinove gradi, e c'è tutta la città, in spiaggia, ed è come fosse luglio, o fine agosto, o giugno, come se a Cagliari i mesi contassero poco, come se nessuno volesse cedere alla logica dell'autunno, e tutti stanno parlando della Capitale della cultura, chissà come andrà, chissà chi vince, e tu sei lì sdraiato sulla sabbia e leggi un romanzo giallo inglese che racconta di spie nella brughiera e foreste polacche e neve e pioggia battente e intorno a te sono tutti sorridenti e all'improvviso hai centomila ricordi nella testa, degli anni del liceo e di quando tornavi da Londra per un fine settimana e non riuscivi a trovare mai la forza per ripartire, di quando vivevi a Castello e il Poetto era a quindici minuti di bici e non c'era giorno di sole in cui non ci andavi, e all'improvviso capisci sei a casa tua, li mortacci tua, e quant'è bello avere queste case senza possedere niente, questi luoghi in cui sei senza dubbio a casa, sdraiato su una spiaggia o in piedi tra gli studenti e i lavoratori in un tram mattutino, quant'è bello questo tardo pomeriggio di tardissima estate, quant'è alto e terso il cielo, ma quanto.