VENERDÌ, 30 GENNAIO 2009
Pagina 1 - Cagliari
Stravolto il capitolato, trascurati i rischi, la sabbia era molto diversa
«La spiaggia era erosa soltanto in parte, non è stato intervento di protezione civile»
CAGLIARI. Il consiglio comunale l’aveva ricordato in un ordine del giorno: «La sabbia è il bene più grande del Poetto». Era il 18 novembre del 1998. Quella ricchezza è sparita per una sequenza spaventosa di errori e di leggerezze commessi da amministratori, dirigenti e consulenti della Provincia. Errori che i giudici del tribunale Francesco Sette, Giampaolo Casula e Silvia Badas hanno valutato e ricostruito nelle 313 pagine che motivano la sentenza che il 4 luglio scorso ha chiuso il processo per il ripascimento-disastro con otto condanne, più altre due col rito abbreviato. Una certezza su tutte, espressa chiaramente dai giudici: «Il Poetto, nel momento in cui venne compiuto il disastroso intervento, era una spiaggia che specie in alcuni tratti mostrava indubbi segni di erosione o comunque di arretramento ma restava comunque per la gran parte un sito ambientale di eccezionale bellezza, da tutelare sopra ogni altra esigenza. Laddove non fosse stato in assoluto possibile reperire sabbie idonee - ma non è così, vista la possibilità offerta dalle vicine cave, oltre a quella di approvvigionarsi di sabbie del Sahara dalla Tunisia - potevano essere intraprese altre opzioni, quali barriere e pannelli sommersi, pur inizialmente escluse, che tutelassero meglio le caratteristiche del litorale. Niente e nessuna delle autorità e degli enti interessati si era mai espressa per un ripascimento con sabbia qualsivoglia purchè idonea a resistere per qualche tempo al moto ondoso e all’azione dei venti». Sono affermazioni chiarissime, categoriche, quelle del tribunale. Destinate a sgombrare il campo da facili argomentazioni difensive («era solo un intervento di protezione civile») e dalla tendenza a definire ineluttabili le scelte sul Poetto.
Ma i giudici vanno oltre. Nelle motivazioni elencano le analisi scientifiche compiute sulle sabbie, le confrontano e concludono che nessuna delle prescrizioni del capitolato è stata rispettata: il materiale sversato tutto d’un colpo sull’arenile, saltando la gradualità stabilita nel progetto, è profondamente diversa da quella originaria. E’ sabbia chimicamente diversa, incrostata di residui organici, costituita da «elementi grossolani» e caratterizzata da una «prevalente componente ghiaiosa». Non solo: quel materiale è l’origine dell’effetto orzata di cui ancora soffrono le acque del litorale cagliaritano. Quindi il danneggiamento c’è stato «nel momento - sostengono i giudici - in cui sono stati sversati e sparsi i materiali di prestito inidonei, macroscopicamente difformi dal sedimento che componeva la spiaggia originaria, con conseguente descritto deterioramento dell’arenile del Poetto e dello specchio d’acqua antistante, le attività successivamente poste in essere principalmente al fine del recupero e dello smaltimento dei ciottoli di dimensioni maggiori, valendo al più come tentativo, peraltro concretamente inidoneo, di elidere o attenuare le conseguenze dannose del reato già perfetto in tutti i suoi elementi soggettivi ed oggettivi».
D’altro canto, scrivono i giudici del tribunale «nessuna decisione politica ovvero amministrativa è in grado di autorizzare o legittimare uno stravolgimento, di sicuro impatto peggiorativo, delle caratteristiche del litorale, quale quello avvenuto, tutti coloro che hanno scientemente contribuito a determinare l’evento di danno sono, secondo l’entità del relativo apporto, egualmente responsabili per il danneggiamento causato» perchè «anche la semplice accettazione del rischio che un determinato evento previsto possa verificarsi, implica un atteggiamento della volontà e dunque una forma di dolo, nella fattispecie non diretto ma eventuale».
Per il tribunale quindi le responsabilità sono evidenti: «Sono emersi - è scritto nella motivazione - nel corso del dibattimento ed ancor più dalle ponderose ed inequivoche produzioni documentali una serie di dati ed elementi che inducono a ritenere, senza dubbio alcuno, che tutti i vertici dell’amministrazione provinciale, sia le cariche elettive concretamente interessate, quindi il presidente della provincia, già giudicato separatamente, ed ancor più l’assessore competente Renzo Zirone («partecipa direttamente a ogni fase»), che i direttori dei lavori Andrea Gardu e Salvatore Pistis e l’ingegnere capo nonché progettista Lorenzo Mulas, così come l’ingegner Piergiorgio Baita, che in qualità di presidente del consiglio di amministrazione della Mantovani s.p.a. e di rappresentante legale dell’Ati seguì tutte le fasi dell’appalto sottoscrivendo in prima persona tutte le missive inviate alla stazione appaltante, avessero una chiara e netta rappresentazione dell’altissimo rischio di irrimediabile deterioramento cui sarebbe stato esposto il litorale nel caso in cui, come è avvenuto, si fossero riversate sullo stesso le sabbie provenienti dai fondali già individuati nel decreto del ministero dell’ambiente e prelevate secondo le modalità indicate dalla Mantovani. Di converso non si rinvengono nelle carte progettuali e nei risultati delle successive campagne di prelievo e carotaggio che hanno preceduto la definitiva approvazione del programma dei lavori, dati idonei a rassicurare alcuno - e tanto meno dei tecnici in grado di leggere criticamente i risultati ottenuti - in merito all’altissima probabilità se non alla certezza di reperire materiali compatibili con il sedimento originario o quanto meno in linea con le previsioni del capitolato, si dà ribaltare, con sicurezza, i negativi dati iniziali e fondare ragionevolmente la convinzione che l’evento dannoso, pur previsto e prevedibile, non si sarebbe verificato».
Per i giudici «gli elementi dai quali si trae la conclusione che gli imputati si rappresentarono una qualificata probabilità di verificazione dell’evento dannoso, come si è detto non controbilanciata da alcun serio dato di segno contrario, si traggono da alcuni allegati al progetto ove è ribadito che la scelta ottimale, sotto tutti i profili, e soprattutto avuto riguardo alle necessarie garanzie di “compatibilità” fra le sabbie di riporto e quelle autoctone, era quella di approvvigionarsi dei materiali da destinare al ripascimento acquisendoli nei depositi naturali presenti nell’ hinterland, in un raggio di circa 40 chilometri, già individuati e studiati». (m.l)