Roland Barthes in “La camera chiara. Nota sulla fotografia” sottolinea narrazioni e responsabilità di una foto. Quanta maggiore consapevolezza in un'epoca in cui contenuti e circolazione sono virali e fotografo, fruitore, fotografato spesso coincidono. Ma che accade se spectator e spectrum, ovvero fruitore e oggetto fotografato, non coincidono con chi fotografa? Se il distanziamento trasforma l'immagine in archeologia? Se chi fotografa viene da un altrove e vede i luoghi come archeologici? La questione si pone con le immagini “Île de Sardaigne. Cagliari et Sassari. 40 vues photographiques” di Édouard Delessert (1854) o di Max Leopold Wagner (1906/1909), visibili nella Sardegna Digital Library. L'emozionalità perdura anche con un approccio problematico se sono l'unica fonte iconografica di un luogo. Due esempi. La Basilica di Bonaria ripresa da Delessert, prima delle riconsacrazioni del 1885 e del 1926, e a poca distanza da san Bardilio immortalata da Wagner. Il Santuario domina una collina in cui emerge la dimensione rurale e rupestre che giustifica il toponimo de gruttis della chiesa di santa Maria o de portu salis, in seguito san Bardilio, demolita nel 1929. Anche Wagner intravede le cavità riferibili a una necropoli riconosciuta nel 1587 e nell'Ottocento nella messa in opera del cimitero e negli ampliamenti, progettati da Gaetano Cima. Gli interventi del Novecento ne hanno eroso unitarietà e dimensione eppure fu in uso dal periodo punico all'alto medioevo tra collina e via Cimitero. C'è un'altra città in Europa dove persistano due colline, una dal Neolitico e l'altra dal IV secolo av. C. con cimitero annesso? La prima si chiama Tuvixeddu. Per fortuna fotografate senza selfie.
Maria Antonietta Mongiu