Intervista con Loriano Macchiavelli, presente al Marina Café Noir
di Roberta Sanna
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CAGLIARI. «Dalla Sardegna prendo sempre il ricordo più dolce, che è il suo miele meraviglioso, ho il mio pusher, il mio fornitore di Pula con il quale sono in stretti rapporti epistolari», racconta Loriano Macchiavelli, classe 1934, uno dei fondatori del noir italiano con una trentina di romanzi che hanno ispirato anche fiction tv, protagonista stasera di due appuntamenti al Festival Marina Cafè Noir. Oggi alle 23, con un reading di Giuseppe Boy e la musica dei Dancefloor Stompers al Terrapieno, saranno festeggiati i quarant’anni del suo Sarti Antonio, il questurino più longevo della letteratura noir italiana e internazionale, protagonista della celebre serie ambientata a Bologna che Einaudi sta riproponendo. Insieme alla figlia Sabina, con cui ha firmato la raccolta “E a chi resta, arrivederci. Racconti e monologhi per Leucò” sarà invece alle 18, nell’incontro al Giardino Sotto le mura. È stata Sabina a mettere a confronto i propri racconti con quelli del padre accorgendosi che affrontavano le stesse tematiche. «C’è una distanza generazionale. Due generazioni che parlano degli stessi temi: emarginazione, droga, guerra, solitudine». Soprattutto, spiega Macchiavelli, c’è una differenza nell’affrontarli: «Io con una certa rabbia, lei con una certa disillusione, quasi a dire: non c’è più niente da fare. Dovrebbero essere i lettori a interpretare con il proprio metro, ma per quel che mi riguarda ho trovato intanto un linguaggio molto più scientifico in Sabina, più colto del mio. Il mio è un linguaggio di vita, il suo un linguaggio di approfondimento».
Cosa emerge dal confronto generazionale?
«Le attuali generazioni hanno meno speranza di cambiare il mondo. Noi venivamo da un’epoca di speranza, ora siamo in un epoca dove la speranza non so quanto possa esistere. Viene fuori comunque una situazione che si perpetua, non solo lungo la mia generazione e in quella di mia figlia, ma anche nella successiva. Sono temi che restano: emarginazione, droga. E la guerra, che non solo resta, ma si estende in tutto il pianeta. Questo viene fuori a distanza di tanti anni tra uno scrittore e un altro: il perdurare di questi temi. Lei ha il primato di aver raccontato eventi drammatici della storia italiana sotto forma di romanzo poliziesco».
È sempre un buon modo per rivelare la realtà di un Paese?
«È la prerogativa del noir, fin da Hammet e Chandler, raccontare il mondo attorno».
Non lo fanno più i giornali?
«Lo facciamo noi, parliamo della verità attraverso il noir. Ho sempre pensato che il mestiere di scrittore sia quello di raccontare la vita che ci circonda e ci riguarda, la mia ottica è questa. Fin dagli esordi, che risalgono al 1974, ho cercato di raccontare questo. Allora non si parlava di romanzo giallo o di noir italiano, e soprattutto non di autori italiani. Oltre Scerbanenco, Attilio Veraldi, Fruttero e Lucentini, non c’era altro, il deserto. Io ho affrontato certi argomenti, che poi con piacere ho visto sono stati ripresi da generazioni più giovani, ed è diventato uno stile italiano. Perché noi abbiamo insegnato in Europa a raccontare il nostro Paese».
Nel suo recente romanzo “L’ironia della scimmia” affronta ad esempio la vicenda dell’Aquila.
«Ho voluto affrontare un problema drammatico. Nel romanzo dico: le generazioni future la definiranno la Pompei del 2000. Perché a vedere il centro storico dell’Aquila oggi ci si sconforta a distanza ormai di cinque anni. Quello che non è riuscito a fare il nostro Paese è desolante: è un quadro della nostra società di oggi, dove le chiacchiere sovrastano tutto. I fatti restano e dimostrano quanto siano inefficaci le chiacchiere dei nostri politici».
Anche nei romanzi che lei ha scritto con Francesco Guccini c’è una particolare realtà da raccontare.
«Raccontiamo la nostra montagna, attraverso l’indagine, quella dell’Appennino che sta tra Toscana ed Emilia, e cerchiamo di mettere in luce ciò che altri mezzi non fanno: la nostra montagna sta morendo. Il fatto che ci costruiscano le seconde case è il sintomo dell’agonia. Quando finisce l’estate torna ad essere desolata, trascurata, senza assistenza ai bisogni del territorio. Dai nostri romanzi i lettori dovrebbero ricevere una spinta all’esasperazione, per ribellarsi a questo stato di cose. Questo è un concetto fondamentale nella vita dello scrittore: non raccontiamo soltanto il dramma, diciamo che possiamo venirne fuori».