Nel pieno dramma della peste, nel 1655, l'intercessione del Martire salvò la città
Paolo Matta
T i prego, Signore, di proteggere la città di Cagliari dall'invasione di nemici; ti prego anche affinché il popolo cagliaritano abbandoni il culto degli dèi e respinga gli inganni del demonio, e riconosca Te, Gesù Cristo, Signore nostro, come unico vero Dio. Chiunque, afflitto da malattie, si recherà nel luogo dove il mio corpo verrà sepolto, recupererà la sua salute, o se qualcuno si troverà in pericolo tra i flutti del mare, o oppresso da genti straniere, o tormentato dalla fame o dalla peste, dopo avere invocato me, tuo servo, verrà salvato e liberato dalle sue angustie, per grazia tua.
È l'ultima preghiera che Efisio, prima di morire, chiese al boia di poter esprimere. Alzando lo sguardo al cielo, si rivolse a Dio invocando la sua benedizione e chiedendogli di estendere la sua eterna protezione alla città di Cagliari.
È un frammento della Passio Sancti Ephysii, custodita nella Biblioteca Vaticana, testimonianza del presbitero Marco, presente al martirio di Efisio, avvenuto, secondo tradizione, per taglio della testa, sulla spiaggia di Nora il 15 gennaio del 303 dopo Cristo.
Ma per comprendere il significato più profondo della processione del 1° maggio dobbiamo fare un salto in avanti di tredici secoli.
Nell'ottobre del 1655 moriva a Cagliari l'arcivescovo Bernardo de La Cabra, pare contagiato da un morbo trasmesso da un ermellino arrivato da San Pantaleo, appartenuto al vescovo di Dolia. I cagliaritani - così ci riferiscono le cronache - bollarono l'episodio come calenturas de mala calidad.
E invece nella città capoluogo della Sardegna stava arrivando la stessa epidemia di Milano, di manzoniana memoria. La conferma arriva dal capitolo XXXI dei Promessi Sposi: La peste… c'era entrata per davvero… e non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d'Italia. Per giungere in Sardegna dovette scavalcare il mare, ma alla fine vi giunse. Fu, come nel capoluogo lombardo, dapprima lenta, poi fulminea e si arrivò, a Cagliari, a contare 200 morti al giorno. Alla fine furono 12mila le vittime, più di metà della popolazione del capoluogo che, allora, non superava le 20mila anime.
A Cagliari, e alla Sardegna tutta, non restò altro che levare lo sguardo al cielo. A impetrare quella pioggia, risanatrice e liberatoria, che poteva arrivare solo per grazia celeste.
Venne portato in Cattedrale il simulacro di Sant'Efisio, ulteriore sigillo di una devozione e un affidamento secolari, mai interrotti. Come conferma un precedente atto di affidamento, risalente a un secolo prima, correva l'anno 1548, attraverso il quale l'Amministrazione Civica, in segno di debitoria riconoscenza, istituiva un tributo per la celebrazione di messe in onore del Martire Efisio nella sua chiesa di Stampace, la stessa da cui parte la processione votiva giunta alla sua edizione numero 358.
Si spiega allora perché, nel pieno dramma della peste, i cagliaritani si siano rivolti ancora all'intercessione di Sant'Efisio. Che, ancora una volta, si abbassò ad asciugare le lacrime dei sui figli prediletti. E i sardi, devoti e riconoscenti emisero la solenne promessa, dal valore eterno: una volta cessata la peste, sarebbe stata indetta una solenne processione con il simulacro del Santo portato da Cagliari a Nora e viceversa sui passi del martirio, a imperitura memoria.
Nel maggio 1657 il voto ebbe per la prima volta realizzazione e da allora si rinnova fedelmente. Senza alcuna interruzione, neanche sotto il pericolo delle bombe, come avvenne nella drammatica edizione del 1943. Sta tutta qui la straordinaria e unica potenza di questo rito, che si rinnova, da oltre tre secoli e mezzo al 1° maggio.
Sardegna è Ichnos, impronta di un sandalo in mezzo al Mediterraneo.
Nelle sue coste tuttora visibili le testimonianze dei primi araldi della fede cristiana, ancora in germoglio, magari dello stesso Paolo di Tarso, apostolo delle genti pagane. Nel III secolo le prime comunità sono già fiorenti, costrette al silenzio e al nascondimento delle catacombe per paura delle inumane persecuzioni romane. E proprio un pagano dell'impero di Cesare, il “disertore” Efisio d'Elia, sarà fra i primi martiri, testimoni fino al sangue, di quel Gesù di Nazareth riconosciuto come Messia, sotto la croce, proprio da un centurione romano.
Di questa fede resta la sua prigione, nelle viscere di Cagliari. L'ipogeo di Stampace diventa basilica sotterranea di un culto, silente e domestico, che presto si diffonderà in tutta l'Isola.
Non ha altre umane e razionali motivazioni la devozione, destinata a diventare un legame eterno, fra Efisio e la Sardegna.
Che oggi, sapientemente suddivisa per regioni storiche, irripetibile e inarrivabile tavolozza di colori, fogge e suoni di questo autentico microcontinente, precede il simulacro del Santo, fiera e composta, devota e riconoscente per il dono di grazia ricevuto.
Al visitatore che, per la prima volta, ha la fortuna di assistere alla processione votiva di Maggio, scatta naturale un meccanismo interiore che lo trasforma da passivo spettatore a protagonista attivo dell'evento. «Si vedranno il fulgore dei costumi tradizionali e i mille prodigi di bellezza e di colore delle nostre usanze, godimento raro di luce e di spontanea arte popolare», scriveva Paolo De Magistris, sindaco e discreto seguace del Santo. «Ma il vero significato della festa non è qui, nelle strade di Cagliari. Per coglierlo bisognerebbe recarsi a Giorgino, nelle rustica chiesetta dove si effettua la prima sosta per la muta del cocchio e delle vesti. Lì, non i colori della fantasia che ha arricchito il costume sardo di ogni splendore, con canti e luminosi sorrisi di giovani in festa. Lì, i piedi scalzi delle anonime donnette che hanno fatto voto per le più segrete angosce, lì le lacrime di rugosi volti contadineschi di vecchi spinti da segrete e profonde riconoscenze. Lì, non l'urlo delle sirene in festa ma il monacale tintinnio di una minuscola campanella che suona a distesa per annunziare l'arrivo del Santo ai fedeli in attesa. Lì, il vero senso religioso di una festa che è nel cuore e nella tenace, commossa, riconoscente memoria».