Mostre La personale al Temporary Storing della Fondazione Bartoli Felter di Cagliari
E quando non te l'aspetti, arriva l'acqua e come uno schiaffo ti risveglia la mente. Ti perdi nella terra, tra le calde polveri raccolte con le mani e con le mani plasmate sulla tela, poi d'improvviso un bagliore d'azzurro, prima tenue poi cobalto, e riesci a coglierne pure la freschezza. “Sinis”, la personale di Marco Pili, è proprio così: un altalenarsi di sensazioni che circonda chi entra nello spazio del Temporary Storing della Fondazione Bartoli Felter che a Cagliari accoglie le sue opere ancora fino a sabato (dalle 18 alle 20).
Per due settimane, nelle sale di via XXIX novembre chi ha visitato la mostra curata da Alessandra Menesini si è lasciato avvolgere dal caldo torrido in arrivo dai campi e si è fatto rinvigorire da un tuffo nel blu ristoratore dopo una giornata afosa. Ma anche nelle opere dove il turchese del cielo si perde in quello del mare, ecco il fuoco: due striscioline appena. Giusto per non dimenticare di cosa è capace l'uomo. Sabato si chiude e per rendere omaggio a Pili che nella tela “La capanna di Porgy” ricorda Gershwin, dalle 19 il Karel Quartet (Francesco Pilia, Alessio De Vita, Marco Fois, Federico Sanna) dedicherà la scaletta proprio al compositore statunitense.
“Sinis” è un'esposizione che toglie il fiato, visioni quasi aeree di una campagna che regala colori e sentimenti. Quelli cupi lasciati dagli incendi, quelli gialli quasi come lo zafferano o più tenui come la paglia che raccontano di poderi e coltivazioni, di paludi. A volte odori. Di natura, segnata dall'intervento violento dell'uomo. Scenari che l'artista conosce a memoria e che ridisegna mescolando diversi tipi di terra con la sabbia e aggiungendo delle resine, a volte della carta già utilizzata per ottenere sfumature nuove. La realtà oggettiva è costantemente trasfigurata per regalare uno spazio ai paesaggi interiori che qui, sulla tela, sono rappresentati da geometrie.
Da Nurachi, dove è nato nel 1959 e dove vive, arrivano sia l'ispirazione che tutti i materiali, comprese quelle gocce dense, quel sangue di bue che Marco Pili utilizza per rendere più intensi i rossi. Proprio come si faceva in passato per dare colore alle cassapanche. Doti che gli hanno consentito di vedere inserite le proprie opere in importanti collezioni e in musei, sia in Italia che all'estero, dallo Sharjah Art Museum degli Emirati Arabi alla Galleria Bertrand Kass di Innsbruck, da Milano a New York e Cagliari. Solo da una visione attenta si scorge che tutto, dai brandelli di fili ai fondi strappati di un setaccio ai pugni di terriccio portati via, ritrova nuova vita e sfumature nelle grandi tele come in quelle più piccole. Dettagli che fanno la differenza, appunto. Così come nell'unico cerchio che sfoggia il rosa. I tessuti sono stati prima fissati e poi tirati via per ottenere un risultato quasi imprevedibile ma comunque programmato, e ora che sono parte dell'opera sembrano la fotocopia delle sfoglie di carasau, trattate, rese lucide ed eterne su piccole tele che nascondono segreti. (Il pane, vecchia passione dell'artista fin dalle primissime opere del 1985). Perché tutto rinasce tra le mani di Marco Pili. Anche le vecchie tovaglie e i pezzetti di stoffa recuperati qua e là ritrovano un senso nel retro dell'opera, seppur nascosti, a sottolineare che ogni cosa è realtà. Anche senza nostalgia. Partire dalla forma, come il maestro Antonio Amore gli ha insegnato, per poi destrutturarla. L'arte figurativa, Pili l'ha messa da parte da tempo. L'ha coccolata quando ha mosso le prime pennellate, poi ha rivolto lo sguardo verso un'arte più astratta e informale, dedicata al naturalismo. Alla propria cultura, come i grandi murales realizzati a San Sperate. Eccole le planimetrie firmate da Pili su tele enormi, 200x200, e su quelle più piccole: una serie di 7 opere, quasi una foto scattata dalle nuvole che rende omaggio ancora una volta agli aridi campi che abbracciano costruzioni basse e armoniose. Il Sinis, insomma. E i due totem ricavati da una botte fanno la guardia.
Grazia Pili