Dal Galateo ai manuali per signore ammodo L’emancipazione chiusa in una gabbia dorata
8 marzo
di Sante Maurizi In principio fu monsignor Giovanni Della Casa. «Non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli ». Scritto a metà del Cinquecento, il manuale «De’ costumi», detto Galateo per la dedica fattane a Galeazzo Florimonte, fu per secoli il vangelo per chi volesse aver coscienza dei «modi che si debbono o tenere, o schifare nella comune conversazione». E dunque «sconcio costume è quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien lor voglia». Così come nessuno dovrà «apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini»; né «soffiato che tu ti sarai il naso, vorrai aprire il moccichino e guatarvi entro, come se perle o rubini ti dovessero esser discesi». Non è anomalo che un importante prelato, nunzio apostolico a Venezia e segretario di Stato durante il pontificato di Papa Paolo III, stilasse minutamente precetti mondani in uno stile fra il serio e il faceto; piuttosto non è consueta la dichiarata possibilità di estendere a tutti il modello cortigiano di savoir-vivre. E sta forse qui uno degli elementi che fecero la fortuna del trattatello in tutta Europa. Poco più di tre secoli dopo, la marchesa Colombi – moglie del fondatore del Corriere della Sera e autrice di quel «Matrimonio in provincia» amatissimo da Italo Calvino – pubblica «La gente per bene». La giustificazione è di aggiornamento della lezione del passato: «Nei galatei antichi non si troverà nulla sullo scambio delle carte da visita, sulle partecipazioni di matrimoni, sulle strette di mano, sul contegno da tenere in viaggio, e altre cose che appartengono alle nostre usanze moderne». Tali consuetudini hanno in Italia una dimensione tutta particolare: quella della recente Unità, e il fortunato galateo della marchesa – decine di edizioni– segna l’inizio di un fiorire di altri manuali che invaderanno case, istituti, collegi, scuole. Gli oltre centotrenta titoli editi fra il 1861 e il 1915 hanno due caratteristiche comuni: partecipano al processo di costruzione dell’identità nazionale, e mettono via via sempre più al centro la donna, definendone fin nei più minuti particolari – spesso con un fremito erotizzante – comportamenti e cura del corpo, ruolo e mises, divieti e opportunità. I capitoli del libretto della Colombi sono un catalogo di età che corrispondono a funzioni: la donna sarà signorina, fidanzata, sposa, madre, signora, vecchia. C’è anche la zitellona, che adotterà il vestire e i comportamenti di una signora maritata (tranne il ballo), ma «se in famiglia vi sono persone a pranzo, si collocherà in modo da non darsi nessuna importanza, senza affettare tuttavia di prender l’ultimo posto né atteggiarsi a vittima». In questo dignitoso mimetizzarsi con la tappezzeria è il coronamento del destino di fattrice mancata di giovani cittadini, ma anche il carattere più profondo del paradosso della vera eleganza: quello di non farsi notare. Le buone maniere sono segno di distinzione quanto più tendono all’uniformare, e in quell’Italia giovinetta c’è bisogno di rendere omogenei popoli, codici, culture, gastronomie. In un ideale di ordine sociale che respinga, tra l’altro, le seduzioni del nascente socialismo. Non c’è bisogno della rivoluzione: la propria condizione è migliorabile partendo da se stessi, e nella cassetta degli attrezzi del galateo c’è tutto per la scalata lungo la gerarchia sociale. Le buone maniere come esorcismo e formidabile lubrificante sociale, secondo la felice definizione di Gabriella Turnaturi (autrice per Feltrinelli di «Signore e signori d'Italia»). La produzione di manuali rimarrà costante lungo tutto il Novecento. Diverranno familiari a donne di tutte le età, e sempre più alfabetizzate, nomi come Donna Clara, Irene Brin, Donna Letizia, Lina Sotis, che eserciteranno la loro autorità attorno ai quattro temi classici: il corpo, il comportamento, la conversazione e l’organizzazione dello spazio, in particolare quello domestico. Ancora copioni per la recita sociale, che raccontano l’evoluzione delle classi e dei costumi in maniera spesso più efficace di inchieste e statistiche. Ma con uno slittamento progressivo, particolarmente nell’ultimo trentennio, dall’arte di non farsi notare a quella di mettersi in vetrina («dalle buone maniere alle buone carriere», scrive la Turnaturi), e Facebook come attuale luogo privilegiato dove dare libero sfogo alla proprie energie cafone. Difficile non avere nostalgia per il buon tempo andato. Pensate a quella che era l’arte del baciamano, e a quel che combinò solo quattro anni fa un nostro capo del Governo per omaggiare Gheddafi buonanima.