Domani alle 11 a Cagliari, nella chiesa di San Francesco da Paola in via Roma, su iniziativa dell'Associazione provinciale vittime civili di guerra e del Comune, verrà celebrata la messa in suffragio delle vittime dei bombardamenti che nel 1943 colpirono la città. A seguire i caduti verranno commemorati davanti alla lapide nell'androne del palazzo del Consiglio regionale. Nel settantunesimo anniversario dei bombardamenti pubblichiamo una testimonianza di Marco Coni.
L a notte, quella notte, era calata prestissimo: già intorno alle cinque del pomeriggio dopo circa tre ore dalla fine dell'incursione, le tenebre rese più scure da una fitta e polverosa caligine rendevano ogni cosa confusa, dai contorni incerti e irriconoscibili per le diverse prospettive di strade e palazzi distrutti.
Ogni tanto a brevi intervalli, si udivano per tutta la città forti boati che con l'oscurità della sera, resa ormai impenetrabile per la totale assenza di illuminazione, rendevano più cupa e pesante l'atmosfera.
Lasciati i rifugi, per molti il rientro nelle case era stato più che drammatico, soprattutto per quelli che l'incursione aveva trovato divisi e cominciava così il triste calvario della ricerca, negli ospedali, presso parenti ed amici, e per le strade buie invase di macerie.
Altri, ritrovatisi indenni e riuniti, avevano trovato un cumulo di rovine al posto della casa e non riuscivano a staccarsi da quegli ammassi di pietre, dai quali affioravano quasi irriconoscibili arredi che erano stati fino a poche ore prima l'ambiente della loro vita quotidiana. Altri più fortunati avevano ritrovato la casa ancora in piedi, con porte e finestre divelte, che i più intraprendenti già cercavano di richiudere.
Questa era la situazione di una famiglia abitante nella via Pola, in una modesta casa con un unico grande appartamento posto al piano rialzato, nella zona antistante il campo di calcio dell'Unione Sportiva Cagliari.
Cominciò pertanto per la famiglia una faticosa “marcia di trasferimento” con una temperatura glaciale lungo le ripide salite della via Pola e del viale Merello immersi nella oscurità più nera , attenti a scansare alla fioca luce delle stelle gli alberi sradicati posti di traverso lungo la strada.
Durante il percorso, si apprese da militari in transito che i boati e le forti esplosioni che si udivano di tanto in tanto, erano causati da una nave all'ancora nel porto, colpita durante l'incursione.
All'arrivo davanti alla grotta rifugio si offrì un quadro terrificante: una folla sedeva sulla nuda terra in una grande caverna, fiocamente illuminata da centinaia di lumi che rendevano ancora più tragica e grottesca, la visione d'insieme.
Ad ogni esplosione si zittiva il brusio delle voci e si percepiva la cantilena delle preghiere recitate sommessamente; allo sgomento iniziale si sostituì la decisione di trovare posto nel rifugio, cosa resa possibile dall'intervento di alcune persone amiche, felici di trovare volti conosciuti e poter così dividere l'ansia e la paura. Trascorse le prime ore della notte seduti per terra, esposti ad una temperatura gelida si decise infine di rientrare a casa.
E sembrò a tutti grandi e piccoli, di riprendere a vivere dopo l'incubo della grotta. Mentre i giovani mangiato qualcosa presero ben presto sonno, pur tra le lenzuola gelide, si svolse un sommesso conciliabolo al lume di candela tra i genitori che presero la decisione di partire appena giorno, per un paese presso Oristano, dove risiedevano alcuni parenti. Vennero approntate le poche valigie e borse disponibili, stivando il vestiario più necessario, le scarpe e i pochi oggetti preziosi. All'alba ancora buio il cielo, svegliati i “ragazzi” e con indosso il maggior numero di maglie e maglioni, per combattere il freddo e portare con sé il maggior numero di indumenti, distribuiti i bagagli e chiusa alla meglio la porta di strada, con molti sospiri e lacrime della genitrice, ci si avviò verso il casello di San Paolo, posto che la stazione centrale era del tutto inagibile e i treni sarebbero partiti dalla periferia. Faticoso il lungo percorso inframmezzato da soste per il cambio di mano delle pesanti valigie, nonché da scambi di notizie con altre persone che facevano lo stesso tragitto alla ricerca di un treno che li allontanasse dalla città.
Schiarito ormai il cielo, apparve un bivacco di centinaia di persone che presso i binari, accovacciate in terra con attorno i bagagli, attendevano un treno di cui nessuno conosceva orari e percorrenze. Individuato un ferroviere dal cappello fregiato di aquila e filetto dorato, si seppe che il treno era in formazione e sarebbe partito appena possibile. Così avvenne alcune ore dopo e si assistette ad un vero e proprio “assalto alla diligenza”: si comprese ben presto che non sarebbe stato possibile caricare una tale quantità di persone e il treno con un lugubre prolungato fischio, cominciò lentissimamente a muoversi, suscitando un coro di proteste miste a pianti. Si vide allora che molti si erano issati sul tetto dei vagoni e si apprestavano al viaggio abbarbicati ai vari appigli. Nessuno voleva rassegnarsi ad attendere un secondo treno: la paura era tanta man mano che si avvicinava la cosiddetta “ora degli allarmi” intorno al mezzogiorno.
Cominciò così, nella freddissima giornata del primo marzo 1943, l'esodo di una popolazione impazzita per il terrore, dopo la grande incursione del 28 febbraio ad opera dei “liberatori”.
Marco Coni