L a sera del 9 febbraio scorso il Festival del cinema di Berlino ha regalato una stupenda serata proiettando nella prestigiosa sala della Philarmonie un conclamato capolavoro del muto, Il gabinetto del dottor Caligari , nella versione restaurata e colorata (ad opera del Laboratorio Immagine della Cineteca di Bologna) con la colonna sonora composta ed eseguita dal vivo da John Zorn. Un evento per celebrare un film, girato nel 1919 da Robert Wiene, simbolo dell'espressionismo tedesco ma soprattutto apripista di un linguaggio nuovo e dirompente che si materializzava nelle scenografie gotiche, realizzate da tre pittori del gruppo Der Sturn (Hermann Warm, Walter Reimann, Walter Röhrig), fatte di forme frastagliate e appuntite, ombre dipinte, linee a zig zag, fughe di segni deliranti e inquietanti.
Il film - uno dei primi horror - nasceva come monito antimilitarista, mettendo al centro della vicenda un misterioso imbonitore da fiera, il dottor Caligari, che plagiando il sonnambulo Cesare lo pilotava a compiere delitti. All'interno si agitavano temi forti, come l'ossessione dello sdoppiamento di personalità, la confusione tra sogno e realtà, l'umanizzazione del mostro, il personaggio del mago che incarnava la rappresentazione dell'autorità. Tanto che il film, più che l'allucinazione di un ospite di un manicomio, è stato letto dallo scrittore e filosofo tedesco Sigfried Kracauer come una premonizione dell'avvento del nazismo, del potere ipnotico di Hitler e della sua capacità di manipolare le masse.
Sul film - supercitato anche da grandi registi, fra i più recenti c'è Tim Burton - esiste una ricca bibliografia e la storia della sua gestazione e lavorazione aggiunge materiale di studio e interpretazione. Tra cui un piccolo dettaglio, assai curioso: che la Sardegna, Cagliari in particolare, ha avuto un ruolo insospettabile in questo caposaldo del cinema mondiale. E per saperne di più bisogna andare nella biblioteca di Wiesbaden, frugare in un carteggio e trovare la lettera inviata a Filmkundliche Mitteilungen da Hans Feld.
Prima di svelare l'arcano, ancora qualche dettaglio storico. A partire dal rifiuto di Fritz Lang di dirigerlo, fino alla sceneggiatura di Carl Mayer e Hans Janowitz, uno austriaco, l'altro cecoslovacco, nella quale infilarono i loro incubi personali vissuti (il sospetto d'aver visto un assassino, il suicidio di un genitore, l'esperienza di un ospedale psichiatrico) per farne sotto metafora un grido pacifista, contro le atrocità della guerra. Il copione originale venne qui e là rivisto, nonostante le proteste dei due autori (ma il contratto prevedeva che la produzione potesse metterci mano), dal regista Robert Wiene (e dal produttore Erich Pommer) che trasformò la storia in un delirio concepito e raccontato da un pazzo.
Wiene era «un personaggio strano, molto colto e distinto, manteneva ostentatamente una certa distanza nei confronti del suo lavoro cinematografico, era soprattutto interessato alle sculture del Benin, una collezione meravigliosa che aveva personalmente messo insieme quando ancora nessuno conosceva ancora questa civiltà indigena africana». Chi scrive è Hans Feld, critico cinematografico tedesco (1902-1992) che era amico di Pommer e Mayer: questo commento è contenuto in una lettera, scritta a Londra il 19 ottobre del 1969 e indirizzata al dottor Füstenau, in cui appunto si parla di Robert Wiene.
Qualche riga dopo si accenna alla genesi del titolo del film. Ora, ufficialmente, come riportato nella fondamentale Storia generale del cinema di Georges Sadoul, «il nome di Caligari fu tratto dall'epistolario di Stendhal». Il nome venne scelto dai due sceneggiatori, Mayer e Janowitz, ispirandosi al «raro volume Lettere sconosciute di Stendhal . Mentre Janowitz stava scorrendo il libro, lesse per caso che Stendhal, appena tornato dal campo di battaglia, aveva conosciuto alla Scala di Milano un ufficiale di nome Caligari. Il nome piacque subito a tutti e due gli autori», scrive Kracauer nel suo saggio Da Caligari a Hitler, storia psicologica del cinema tedesco .
La lettera di Hans Feld svela invece un'altra verità. Testualmente: «Caligari, come già sapete, fu frutto di una casualità. Anche il titolo. Come Carl Meyer, un buon amico, mi disse una volta, il titolo era un anagramma della città siciliana di Cagliari. Meyer adorava le parole e ci giocava volentieri». A parte la confusione tra Sicilia e Sardegna - capitava agli stranieri di privilegiare la Sicilia come isola e dimenticare la Sardegna - la testimonianza di Feld è precisa. E infatti prosegue ricordando un racconto di Erich Pommer, «durante una serata in società fra amici in una terrazza sul Wannsee, dove gli amici bevevano un bowle mentre passava un gruppo di zingari». Qualcuno disse “Ti ricordi, Caligari?”, associando probabilmente i gitani ai meridionali, quindi agli insulari. «Questa versione - scrive Feld - mi è stata confermata anche a Praga da Hans Janowitz, dove dal 1933 al 1935 vissi come rifugiato».
Dunque Hans Feld raccolse direttamente dai due sceneggiatori del film, Mayer e Janowitz, la conferma che il nome Caligari era l'anagramma di Cagliari. Magari è solo un dettaglio secondario, un orpello da aneddotica (la sceneggiatura originale, per esempio, riporta Calligari, con due elle) però fa piacere che - seppure in maniera giocosa e casuale - Cagliari e la Sardegna facciano parte de Il gabinetto del dottor Caligari , uno dei capolavori del cinema mondiale.
Sergio Naitza