Alessandro Bergonzoni lunedì in scena al Teatro Massimo Anteprima nazionale del nuovo spettacolo, “Lacci”
di Roberta Sanna wCAGLIARI «Bisogna fare un salto in altro, non in alto. Solo che si fa fatica, dicono, si diventa pazzi. Questo spettacolo ne parla». Alessandro Bergonzoni, atteso lunedì e martedì, alle ore 21, al Teatro Massimo per l’anteprima del nuovo spettacolo – ospite della Stagione del Teatro di Sardegna – ne anticipa i temi, come sempre complessi, spiazzanti, perturbanti. Per uscire dalla sedazione, dall’anestesia, dice, e domanda: Scegliamo un tipo di pazzia nuova che ti fa cambiare, o le vecchie pazzie? Quelle che ci fanno guardare ore e ore di cuochi che parlano in cucina, ore di calciatori, o ascoltare promesse che non vengono mantenute… La pazzia è sopportare questo o cambiare spartito? In senso musicale e politico, intende. «Siamo i compositori ma anche i composti – spiega Bergonzoni – L’artista non può stare chiuso nella sua galleria. Io non voglio più fare un mestiere solo». Lo dimostrano i suoi impegni. Oltre al teatro ci sono dieci anni di mostre e installazioni, lezioni magistrali, interventi ai Festival di filosofia. In quello dell’anno scorso a Cagliari proponeva la filosofia negli asili, meglio durante il concepimento. Ora ricollega discorsi e mestieri nel monologo “Lacci”. Titolo che combatte con “Nessi”, perché ancora lo spettacolo si sta rodando. «Chiamiamolo uno spettacolo anteprima/prova» dice. E spiega che l’uomo è un campione di tessuto, del legare, e questi legami son quelli che ci vedono vicini alle persone che ci tirano con i loro fili, e non siamo solo vicini, siamo attaccati. Ecco il legame, fare nesso con chiunque senza precauzioni. E rilancia. «Dov’è l’ultima volta che hai fatto nesso nel posto più strano? Ecco: è la prima volta che nesso e amore possono corrispondere». Perché non si può sempre dire: a me non interessa finché non mi riguarda, io non sono coinvolto… Oppure, solo perché sei sardo, aquilano o siriano ti puoi occupare di ciò che capita in quelle date realtà? Poi sintetizza. «Parlerò di questo lavoro che fa l’uomo, quando cuce scrivendo, o cuce pensando, o cuce guardando. È un tema poetico». Nel senso che lui intende, come posizione sovrumana. Chi è Bergonzoni in scena, attore, personaggio o pensatore? «La figura del comunicatore non la amo, quella dell’attore mi sta stretta, dovrei fare anche testi di altri invece continuo con il mio monologare. Il lavoro drammaturgico è quello di una poetica della scrittura. Ma non più della parola o del gioco di parole. La comicità c’è ancora, ovviamente, e questo spettacolo ha ali di comicità che lo fanno spostare. Il mio lavoro è di responsabilità, non solo civile, o civica, ma una responsabilità artistica. Sono legato più alla parola arte che a quella teatro. L’arte della parola non è retorica, non è la simpateticità. La comunicazione non è questo. Ma è andare a smuovere altre concezioni. Quelle che chiamo posizioni sovrumane. Non nel senso di fatica, ma nel senso di piacere, l’arte è un’azione sovrumana». In questo spettacolo si parla di invocati. «Io sono un invocato. Nell’albo degli invocati. Tutti siamo chiamati. Il tema è tra udenti e non udenti. Dobbiamo sentire. È una questione di frequenza. Non voglio “vivere di questo lavoro”, io sono lavorato più che lavorante. Vengo lavorato dal racconto degli altri, dall’ascolto. Il tema è questo: avere le antenne. Così come i cani sentono gli ultrasuoni. È una questione musicale, di spartito in cui cambiare le note. Noi conosciamo certe note: ce ne sono altre. Molto spiritualismo, molte religioni lo raccontano, molte filosofie. Ma stiamo sempre nella fase del “beati loro”. Per me è un tema anche sociale, politico. Non puoi più pensare che la politica nuova si faccia con le stesse persone. Devi cambiare. Dicevo di andare negli asili con la filosofia? Perché con quei due occhi e due orecchie che abbiamo, più in là di così non possiamo andare. Quanti Borsellino devono morire ancora, quanti Falcone, quante catastrofi dobbiamo sentire ancora per percepire queste frequenze?» Perché dice che la politica dovrebbe essere prima poetica? «Lo spettacolo parla anche di “geniocidio”. Cioè quello che uccido in me quando prendo una certa decisione. Se chi decide di dichiarare guerra, chi di costruire una casa sul fiume avesse una poetica non ci sarebbe questo “geniocidio”. Dopo c’è il genicidio, cioè muoiono le persone, ma prima c’è la scelta che uccide la parte poetica, artistica. Dopo fanno “la poesia”, dei fotografi, della tv, dei film, dove si piange per i morti. È nel prima, ecco dove si lavora. Io la chiamo ante-politica, non antipolitica. Questo è il lavoro che deve fare l’artista, che non chiamo sociale o civile, se no farei spettacoli/denuncia. E ci sarà una piccola sorpresa in Sardegna. Un racconto di un movimento che ho creato quest’anno ad Arte Fiera a Bologna, e ne avrò il segno. Lo porterò su di me»