Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

I fantasmi inquieti di Sa Scafa rimasti a guardia della Quarta Regia

Fonte: L'Unione Sarda
27 gennaio 2014

 

Viaggio nell'angolo abbandonato dai pescatori dopo l'infezione del colera

 

I luoghi della memoria non muoiono. Restano sospesi nella scatola magica dei ricordi dove tutto si conserva: volti, suoni e colori, squarci di vita trascolorati dai secoli ma ancora vividi come in un quadro di Velàzquez. Forse è in questo posto incantato che ancora si agitano i fantasmi della Quarta Regia, la torre di Sa Scafa dove fino al 1956 i pescatori dello stagno versavano s'arrendu , la quarta parte di anguille e cocciula niedda, spirritus e sparedda ai doganieri del re prima e della Repubblica poi. Oggi non c'è più s'arrendadori (figura e balzello cancellati da una legge regionale), e la torre - sentinella aragonese che guarda e ammonisce chi transita per mare verso la laguna - è sempre più vecchia e cadente. L'ombra di quel che è stata.
IL SIMBOLO La Quarta Regia è Sa Scafa. Ne è da sempre il simbolo, l'anima inquieta che custodisce antichi umori e rancori tra cagliaritani e conquistatori di epoche lontane. Raggiungerla, sballottati dal maestrale e guidati dai latrati di un cane disperato, imprigionato chissà dove o forse a guardia di qualche boa o barca senza fondo, vuol dire percorrere un luogo sospeso, umiliato dall'incuria. L'immagine della vecchia Scafa è un dipinto sfregiato: dove una volta c'erano barche e vita, pescatori indaffarati e voci di festa ci sono rifiuti e abbandono. Una merdona in splendida forma non riesce a passare inosservata: fila veloce e sicura nell'erba e s'infila con decisione in uno dei cinque materassi depositati - in modo definitivo, a giudicare dallo stato di avanzato disfacimento - alla destra della strada semi allagata che porta alla Quarta Regia.
IL PONTE Più avanti, oltre un cantiere nautico che custodisce un'infinità di barche e macchinari, altri materassi, un frigo capovolto, resti di chissà cosa ingoiati dalle erbacce imbrattate da schizzi di fanghiglia. Neppure il ponte di travi in ferro, sospeso e fermo oltre il canale che collega il mare alla laguna, sembra in grado di fare il miracolo: illuminarsi per un attimo e far rivivere un'epoca che non tornerà più. Due vogatori vestiti di nero appaiono all'improvviso in lontananza, il loro scafo viaggia leggero e veloce in direzione del mare. Placida e indifferente, l'imbarcazione sparisce oltre un pilone.
LE OMBRE Il vento non si placa. Increspa le acque della laguna e fa tremare la recinzione instabile della torre. Dalla Quarta Regia sembrano arrivare sussurri e stagliarsi figure diafane: i fantasmi dei compagni di Cervantes, o forse soldati catalani fuggiti dai bagni d'Algeri, pronti a scannarsi durante un gioco con dadi truccati. Si stava ore, nella torre. Farsi versare la quarta parte dei pescato era la regola. Il “Compartiment de Cerdena” (1358) definiva l'obbligo per i pescatori, canone poi dovuto ai doganieri della Corona di Spagna e, in anni più recenti, a is arrendadoris repubblicani.
GLI SPARI La vista dalla torre non è cambiata. L'aragonese Pedro Alvarez e l'asturiano Antonio Molina hanno avuto di fronte la stessa distesa d'acqua degli uomini armati da Vincenzo Sulis. Quando il notaio di Stampace decise di vigiliare sulle minacciose navi francesi apparse davanti al porto nel dicembre 1792, piazzò una sua “compagnia” di pescatori in una batteria accanto alla torre. Non si hanno notizie dettagliate di gesta eroiche, ma sembra di risentire l'eco degli spari indirizzati dalla Quarta Regia contro lo scoraggiato naviglio dell'ammiraglio Trouguet. Il cane insiste. Abbaia contro il maestrale ma neppure i sorci che scorrazzano da un pantano all'altro sembrano curarsi del latrato.
IL VETERANO Pino arriva su un piccolo e traballante approdo sostenendo due remi. Si muove con lentezza. Sale in barca, assaggia l'aria come ha fatto chissà quante volte. I suoi gesti sono antichi, ogni movimento ha un senso. «Qui sono il più vecchio». Settantacinque anni. « Chiccheddu , ottantuno, se n'è andato l'anno scorso. Siamo rimasti io e altri cinque o sei, qui a Sa Scafa, a fare le cose che abbiamo sempre fatto». Figlio di pescatori con casa a Sant'Avendrace, vive di ricordi struggenti: «Qui era tutto diverso, un altro mondo. Cocciula e anguille, pesci di ogni tipo. Sa Scafa era un luogo di lavoro ma anche la nostra casa. Altro che Poetto o Giorgino: i bagni li facevano qui». Immerge il remo sul fondale del canale (“da ragazzo vedevo la sabbia bianca”), lo tira su colorato di nero: «Fango inquinato. Se per caso cadi in acqua poi devi buttare i vestiti perché l'odore non va più via». Ce l'ha con chi ha rovinato tutto - l'industria che fino agli anni '70 ha scaricato nella laguna ogni genere di porcheria - e con chi non fa la bonifica: «Sa Scafa è morta dopo il colera del 1974».
Pietro Picciau

Quando Santa Gilla dava ricchezza

Nel 1854 erano 460 i cagliaritani occupati nella laguna

 

Cantavano cambara e maccioni ed erano felici. Anni lontani. Precedenti (di molto) l'arrivo del colera nell'estate del '75. Poi fu tutta un'altra storia. Santa Gilla e Sa Scafa s'incupirono e neppure la bonifica iniziata due anni dopo lo stop alla pesca imposto dalla Capitaneria (sistemata con la Motomar, qualche cantiere nautico e la sede dell'Associazione pensionati nella parte di Sa Scafa che guarda verso il mare) le cose migliorarono. Il crepuscolo del piccolo mondo di pescatori era cominciato: i veleni misti a fango annidati nel fondale furono raccolti e dimenticati ai bordi della laguna. Furono deviati anche il rio Mannu e il Cixerri ma non servì: Santa Gilla deve ancora risorgere. Nel 1854 i lavoratori delle peschiere erano tanti: 460 cagliaritani, 20 di Assemini, 12 di Elmas. I pescatori adulti erano 46, più un esercito di ragazzi. Un mondo (e numeri: 17 mila quintali di pescato all'anno a metà dell'800, appena 3 mila quintali negli anni '60 del secolo scorso) che difficilmente rivedrà la luce. (p. p.)