A Cagliari incontro con lo scrittore Sandro Bonvissuto, autore di “Dentro” I detenuti del penitenziario di Buoncammino leggono in pubblico i suoi racconti
di Daniela Paba
SASSARI I muri dentro il carcere come li ha descritti Sandro Bonvissuto nella sua raccolta di racconti usciti per Einaudi nel 2102 e intitolato, appunto, “Dentro”; il muro fuori dal carcere, quello che tutti viviamo come limite invalicabile, oscuro. I racconti dal carcere che Marina Cafè Noir ha portato in scena – nella Biblioteca della casa circondariale di Buoncammino prima e nel teatro di Sant'Eulalia poi – sono un esempio di ciò che i Chourmo – organizzatori del festival Marina Cafè Noir – chiamano “letterature applicate”. Prima del festival esiste infatti “Biblio - Café Ristretti”, il progetto per cui un gruppo di detenuti di Buoncammino si riuniscono a una volta alla settimana per leggere, discutere e scrivere, insieme a quanti hanno ideato il reading con cui è iniziato ieri il festival. Dentro il carcere cagliaritano hanno lavorato, oltre a Sandro Bonvissuto, gli scrittori Marc Porcu e Serge Quadruppani, ma anche musicisti e fotografi, insegnanti e maestri di canto, capaci, tutti insieme, di trasformare quel cono d'ombra in momenti di allegria e speranza. I racconti dei detenuti e quello di Sandro Bonvissuto si alternano sul palcoscenico mentre, sulla parete di fondo, scorrono le immagini in bianco e nero delle giornate letterarie di Buoncammino, documentate da Rosi Giua.
Del carcere c'è solo la biblioteca, calda di libri alle pareti e dei sorrisi che animano discussioni e incontri. Se non fosse per quella grata che raddoppia il fermo delle finestre, se non fosse uno sguardo ferito che l'obiettivo della fotografa coglie, sarebbe davvero una Biblioteca-Café. Sui brani di “Dentro”, il testo con il quale Sandro Bonvissuto ha vinto nel 2012 il premio “Lo Straniero”, campeggia la foto a colori dello scrittore che fuma, un po' vago, un po' sfocato. Proprio lui che è capace di descrivere minuziosamente i luoghi e le emozioni di chi vive “dentro”; “speleologo esistenziale” l'ha definito la critica, per la capacità di scendere in profondità. Tra le immagini più belle e forti del suo racconto è la descrizione del muro: «Il muro è il più spaventoso strumento di violenza esistente. Non si è mai evoluto, perché è nato già perfetto (…) Quelli che incontriamo nella vita di tutti i giorni non sono veri muri è come fossero ordigni disinnescati. Dei muri a salve. Quelli che stanno lì dentro no. Funzionano. E bene. (…) Il muro è concepito per agire sulla coscienza. Perché il muro non è una cosa che fa male; è un'idea che fa male (…) i muri sono sempre fatti contro qualcuno, contro gli esseri viventi. Bisognerebbe rifiutarsi di costruire muri di cinta. Anche se ci pagassero». I passi che rimbombano nei corridoi vuoti del carcere scandiscono il ritmo tra il racconto di Bonvissuto e quello dei “ristretti” che scrivono di sé. «A tratti luce – tutto buio. Sentire buio. Freddo. Sentire bianco, a tratti nero. Intorno ogni silenzio. Intorno e dentro di me», ha letto Victor Nwankwo. Carlo Birocchi quei racconti li recita a memoria, con amore: «Il carcere minorile di Quartucciu, quasi un collegio, con un giardino con moltissime piante». L'adolescenza e la giornata scandita dalle attività, tutto organizzato, nessuna responsabilità: «Avevo 16 anni. Sono passati trent'anni. Avrei dovuto pensarci allora. Non ora che sono qui a Buoncammino». Momenti di commozione sia a Buoncammino, dove i racconti li hanno letti gli stessi detenuti, come a teatro, dove i racconti sono affidati ai Chourmo.
E i detenuti ringraziano la poesia, gli scrittori, i volontari. Solo alla fine la figura dinoccolata di Bonvissuto emerge dal fondo e si concede un momento di protagonismo sul proscenio. Tanto gli basta per dire che il montaggio del suo libro – tre racconti, il carcere, la giovinezza e l'ultimo sull'infanzia – è stato deciso a posteriori con le editor. «Io non ero affatto d'accordo. Ma poi l'idea è risultata geniale perché così il racconto del carcere è diventato centrale, nella posizione che merita. E il libro è un viaggio dantesco dal male al bene». L'io narrante del primo racconto non ha nessun tratto personale perché «i riferimenti personali sono poco interessanti. Ci sono cose mie, ma piccole, poco importanti. Quel personaggio non ha un nome, non ha un reato, perché avrei creato una distanza col lettore. Lui non è nessuno, non esiste. La scrittura è mezzo d'immagine potente. Periodi brevi, perché il pensiero è sintetico, non ha retorica. La scommessa era rendere la scrittura del pensare».