La bella e ricca rappresentazione dell'opera di Leoncavallo al Lirico
I “Pagliacci” di Zeffirelli, storia realistica e familiare
Una manciata di brani sinfonici di Mascagni e Puccini aprono la strada a “Pagliacci”, dramma in un prologo e due atti di Ruggero Leoncavallo. Un minuto di silenzio dà il segno del lutto di questi giorni e un preludio fatto di intermezzi tratti da opere della scuola verista dà l'estro all'orchestra per entrare nello spirito e nei sentimenti di un'epoca, mettendo l'accento su soffuse musicalità e sfumature cromatiche, con suoni belli e ricchi di pathos.
È l'introduzione al verismo sui generis dei “Pagliacci” che traspare nella regia di Zeffirelli. Rutilante di suoni e colori, lo spettacolo, andato in scena venerdì al teatro di via Sant'Alenixedda, prende il melodramma di Leoncavallo e lo trasforma in una rappresentazione a più livelli. Sulla scena principale la vita di una periferia degradata, con pneumatici, motorini, bici, e persino un asinello, mentre sullo sfondo si apre uno spaccato di quartiere con case su più piani, i panni stesi e la vita che si affaccia sulla piazza. Gli abiti hanno fogge moderne, a dichiarare che si intende rispettare lo spirito più che la lettera di quest'opera di Leoncavallo, andata in scena per la prima volta a Milano il 21 maggio 1892, sotto la direzione di Arturo Toscanini. E nell'opera che contiene in forma esplicita il manifesto programmatico della “giovane scuola” verista, la storia appare ancora realistica e familiare, tragicamente simile agli “amori criminali” delle cronache odierne.
A volerla raccontare con il linguaggio di oggi, Tonio potrebbe essere lo stalker che istiga al delitto, Canio il marito possessivo e violento, Nedda l'ennesima vittima del femminicidio.
A ricostruire la prospettiva temporale e a ricollocare “Pagliacci” alla fine dell'Ottocento è la musica, la vocalità portata agli eccessi e il sentimentalismo estremo. Non a caso Leoncavallo accoglie molte soluzioni da Cavalleria rusticana, dal coro delle campane, ai modi popolareschi della ballatella di Nedda. E poi mostra tutti i suoi debiti verso Verdi, verso il gusto wagneriano per il cromatismo e gli stereotipi tardoromanici. Così, a parte la pietas per la vittima, il ruolo di primo piano è per il carnefice, Canio, e per i tormenti interiori del suo “Vesti la giubba”.
Le voci messe in campo a Cagliari hanno accenti sinceri e quel tanto di drammaticità eccessiva propria della musica verista. A iniziare da Cellia Costea - Nedda che dipinge il suo personaggio tra le delicatezze di “Stridono lassù” e le voluttuose dichiarazioni d'amore a Silvio - Gianpiero Ruggeri che la regia spinge al limite dell'esplicito. Alberto Gazale - Tonio mette nella sua voce cupa quel tanto di sordido e crudele che rende credibile il suo personaggio. E Rubens Pelizzari è Canio, violento e carnefice che gli occhi dell'800 leggono come vittima dell'amore tradito.
Spettacolari e magnificenti le scene d'insieme con mangiafuoco e giocolieri, dove i personaggi del circo si mischiano al popolino. Uno spettacolo bello, originale, che alla resa scenica di Zeffirelli affianca una interpretazione musicale interessante, con un intelligente bilanciamento di effetti tragici, grotteschi e sentimentali, affidata alla direzione di Marcello Mottadelli oltre che all'esperienza e alla sensibilità dell'orchestra e del coro di Cagliari. E a una compagnia di canto che non ha tradito le aspettative. Bei quadri d'insieme vocale quelli del Coro del lirico e del Coro delle voci bianche del Conservatorio. Alla fine “Pagliacci” è ciò che deve essere: rappresentazione di emozioni forti e scene truculente con accoltellamenti e la folla che rumoreggia, sino al finale estremo e al fatidico “la commedia è finita”.
Greca Piras