A Cagliari l’opera di Leoncavallo con la regia di Franco Zeffirelli, ambientata nei giorni nostri tra prostitute e travestiti
di Gabriele Balloi
CAGLIARI Franco Zeffirelli debutta in Sardegna. Certo fa sorridere parlare “d’esordio” a 90 anni, ancor più trattandosi del regista cinematografico di «Romeo e Giulietta» o «Gesù di Nazareth», nonché firma di alcune fra le più sontuose ed eleganti messinscene nella storia del teatro operistico. Il maestro, tuttavia, non è presente alla prima di «Pagliacci». Venerdì al Comunale, difatti, vien letto in sala un suo messaggio col quale, scusandosi dell’assenza, esprime solidarietà all’isola recentemente vessata dall’alluvione, e si augura di poter presto ripetere la collaborazione artistica. Per la Stagione del Lirico è il sesto appuntamento e ultima opera, prima dello spettacolo coreografico «Red Giselle» che dal 10 dicembre suggellerà il calendario. Ed ecco di nuovo l’infedeltà amorosa al centro delle vicende. Ma se ad ottobre il mozartiano «Così fan tutte» ci suggeriva una disincantata e più serena accettazione dell’incostanza umana, «Pagliacci» di Leoncavallo pare invece mostrarci le conseguenze più cruente, il sopravvento della gelosia, del risentimento e della pulsione alla vendetta. Il sipario s’apre su uno scenario che, al confronto, fa quasi apparire statico l’allestimento di Livermore per «I Shardana». L’ambientazione, idealmente, sarebbe quella originale di Montalto (Calabria), trasposta però ai giorni nostri. C’è l’andirivieni caotico e rumoroso d’una piazza, mentre sullo sfondo un edificio popolare suddiviso in vari piani, con un portico al pianoterra e balconate al di sopra; porte e finestre lasciano scorgere l’interno degli appartamenti, da cui s’affaccia un’umanità eterogenea e colorata quanto quella della piazza. Ed è proprio qui uno dei maggior pregi della rappresentazione: mettere in scena una società “moderna”, emancipata, forse anche più evoluta di quella reale, umanamente inclusiva, dove trovano spazio con naturalezza stranieri, gay, lesbiche, travestiti e/o transessuali. Oltre ciò perfino qualche assonanza con l’estetica felliniana, sensibile alla raffigurazione, senza giudizio moralistico, degli “ultimi”: ladri, prostitute, barboni, vagabondi e così via. Insomma, verismo sposato al neorealismo. In tal contesto giunge la compagnia girovaga e circense di Canio/Pagliaccio impersonato da Rubens Pelizzari: non male per irruenza e passionalità, e altrettanto sanguigno nell’espressività canora, al di là di piccole incertezze sulla tessitura più acuta. La sua Nedda/Colombina è Cellia Costea, soprano rumeno di duttile vocalità, capace di gorgheggianti dolcezze nel primo atto e trepidante drammaticità nel secondo. Mentre l’antagonista Tonio/Taddeo ha la voce aspra e tonante di Alberto Gazale, che talvolta spinge un po’ troppo sugli acuti. Il Peppe/Arlecchino di Saverio Fiore ha timbrica lucente ma qualche défaillance intonativa; discreto Gianpiero Ruggeri nel ruolo di Silvio. A dirigere Orchestra e Coro era Marcello Mottadelli, efficace nei passaggi più forti e concitati, meno convincente nei tempi lenti, così come accade sui brani sinfonici eseguiti prima dell’opera (Sibelius, Puccini, Mascagni) dove mancava un maggior lavoro di rifinitura.