di GIORGIO PISANO
Il pizzetto, rigorosamente fuori moda, è da spadaccino d'un tempo ormai lontano. Lo sguardo, acceso e penetrante, quello di un visionario. Ma sotto sotto si vede e si sente la borgata romana dov'è cresciuto e dove abita ancora, con moglie e due figli.
Ascanio Celestini, 41 anni, vive di lampi che qualche volta si trasformano in libri, altre volte in copioni per il teatro. Chiedetegli di definirsi e lui non sa cosa rispondere: «Ascolto storie e racconto storie. Tra l'ascolto e il racconto c'è la scrittura».
Se frugate tra i testi di drammaturgia contemporanea viene etichettato come attore del teatro di narrazione. Riduttivo. Dentro Celestini c'è antagonismo colto, una mano disincantata che racconta l'eccidio delle Fosse Ardeatine o la dannazione dei matti. Ma c'è anche televisione (con Serena Dandini), brevi squarci di intelligenza catodica.
C'è insomma un affabulatore che ha metabolizzato la lezione di Pier Paolo Pasolini e il mondo di quelli che stanno ai margini tutta la vita. Fa il paio con Marco Paolini e la trincea (Dario Fo incluso) che porta sul palcoscenico una storia, una vicenda legata a doppio filo ai giorni che viviamo. Teatro civile, si potrebbe dire, se non gli avessero già dato un altro nome.
A Cagliari sabato prossimo per la stagione teatrale dei Cada Die, presenterà il suo ultimo lavoro: Discorso alla nazione.
Per capire di chi si tratta e di cosa ci si possa aspettare da uno come lui, basterebbe leggere due righe d'un suo libro, Lotta di classe: io passo attraverso i muri. Attraverso le villette antiladro controllate dagli allarmi antizingaro, protette da inferriate antinegro con vernice antiruggine dove antipatici padroni antisemiti con crema antirughe fanno antipasti antiallergici in bunker antiatomici. Scrittura cruda e felice, spietata e brutale. Si intuisce dal ritratto (stesso romanzo) d'uno zio: c'era qualcosa di tragico in mio zio. Qualcosa che si ritrova solo nelle moltitudini di persone, oggetti o concetti. Ha il fascino delle migliaia di sacchetti dell'immondizia squarciati dagli stormi scomposti dei gabbiani onnivori in transumanza sulla discarica. Emana la stessa disgustosa attrazione, la medesima ripugnante seduzione del pericolo in agguato. È una disgrazia seduta in poltrona, il cinese sulla riva del fiume, ti aspetta per farti inciampare da solo. La ragnatela che si riempie di polvere in attesa che passi la mosca.
Cos'è il teatro di narrazione?
«Un teatro specificatamente di narrazione non esiste. Quasi tutto il teatro è narrazione. Lo è Pirandello, Euripide e Shakespeare. Qualcuno vorrebbe distinguere i miei spettacoli o quelli di Paolini o della Musso da altri ritenuti più tradizionali. Secondo alcuni, più distratti, nel nostro caso non ci sarebbe il personaggio, ma sarebbe l'attore a parlare direttamente al pubblico. Invece io (come tutti, inevitabilmente) interpreto un personaggio per il fatto stesso di trovarmi sulla scena. Ma lo interpreto facendolo passare attraverso la mia biografia. È un teatro biografico».
A teatro per raccontare e non per recitare: qual è il vantaggio?
«Nessun vantaggio. La narrazione non è il contrario della recitazione».
A teatro non va più nessuno e lei si ostina a farlo.
«Si sbaglia. A teatro viene moltissima gente. Curzio Maltese in un articolo di qualche anno fa scriveva: Anche il prossimo anno, come l'ultimo, dodici milioni di spettatori andranno a teatro e nessuno ne parlerà. Dodici milioni sono una quantità enorme, l'equivalente di un campionato e mezzo di Serie A. Il calcio e le domeniche sportive, i giornali specializzati e intere sezioni degli altri, una moltitudine di ore televisive sprecate in processi del lunedì, martedì, etc., radio che non trasmettono altro: il teatro non ha nulla. Perché? Sono i misteri della sottocultura dell'informazione».
A Viterbo l'hanno accolta male: Celestini boia. Ferita ancora aperta?
«No. È stata una ragazzata di qualche giovane di destra. Le contestazioni si fanno mostrandosi in pubblico e cercando il contraddittorio, non con qualche scritta fatta in fretta di notte sui muri».
A proposito: lei ci va a teatro?
«Io vado a teatro anche se ho difficoltà ad andarci visto che la maggior parte delle sere sono occupate dai miei spettacoli. In questi anni ho apprezzato molto il lavoro di Giuliana Musso e Veronica Cruciani, oltre a quello di alcuni maestri come Marco Paolini e Marco Baliani, Mimmo Cuticchio, Giovanna Marini e Dario Fo, e poi gli spettacoli di un vecchio compagno: Gaetano Ventriglia».
I suoi personaggi sono ultrasottoproletari, sporchi, brutti e disperati. Perché li ha scelti?
«I personaggi di cui parlo appartengono alle classi più basse, alle categorie più derelitte. Il mio intento non è fare politica, ma scrivere una storia che racconti l'essere umano. Rappresento loro perché nel loro essere indifesi mostrano in modo più netto l'umanità».
Altri co-protagonisti, i matti: sempre ultimi.
«Un infermiere m'ha detto t'è mai capitato di allontanarti dall'automobile e poi tornare indietro col dubbio di non averla chiusa? Immagina di allontanarti infinite volte e infinite volte tornare indietro con lo stesso dubbio: ecco cos'è il disagio mentale . Tutti viviamo un disagio, ma la maggior parte di noi riesce a gestirlo. Chi non ce la fa è come noi, ma con una debolezza in più».
Hanno fatto bene a chiudere i manicomi e abbandonare tutti i pazienti o quasi?
«Non hanno chiuso tutti i manicomi e non hanno abbandonato i pazienti. La famosa legge 180 è del 1978. Per chiudere l'ultimo manicomio pubblico c'hanno messo più di trent'anni. Non mi pare che ciò significhi chiudere i manicomi da un giorno all'altro, c'è voluto molto tempo. In molti luoghi i servizi territoriali funzionano, ma chiudere il manicomio non significa cancellare il disagio mentale. Bisognava superare quell'istituzione nazista per cominciare a distinguere il disagiato mentale dal lager nel quale veniva rinchiuso. E poi molti manicomi, purtroppo, esistono ancora. Sono quelli privati che spesso fanno soldi anche infilando le mani nelle tasche delle istituzioni pubbliche. Per non parlare dell'orrore degli ospedali psichiatrici giudiziari».
“Siamo fatte di pezzi stonati, nero e fucsia”, dice uno dei suoi personaggi. Per quali donne vale?
«Credo valga per tutti, non solo per le donne».
La lotta di classe è un'alternativa alla guerra civile, dice lei. S'è accorto che è morta da un pezzo?
«La lotta di classe è il conflitto tra le classi sociali. Fin quando ci sono le classi, c'è il conflitto. Il problema è che questo conflitto è combattuto consapevolmente soprattutto dalle classi dominanti e che, purtroppo, tra gli appartenenti alle classi subalterne c'è chi lo combatte contro qualche derelitto che può dominare invece che contro il proprio carnefice. La novità è che incominciano a diventare importanti le battaglie territoriali (No-Tav e molte altre) che hanno spostato l'attenzione dal cittadino all'abitante, rovesciando una maniera di fare politica che partiva da una visione del mondo per cambiare il mondo. Oggi si parte dal mondo per arrivare ad una visione di esso».
La riscossa sarebbe dovuta avvenire con Beppe Grillo.
«Non capisco cosa voglia fare Grillo. Ho l'impressione che voglia convertire i macellai al vegetarianismo e per farlo va a squartare vitelli insieme a loro. È vero che non serve avere le mani pulite se si tengono in tasca , ma non è obbligatorio sporcarsele di sangue».
La salvezza è l'antagonismo?
«Salvezza è un concetto per cattolici e tifosi di calcio».
Si sente tradito dalla sinistra?
«No, mi stupisco del fatto che non si capisca qual è il problema concreto dei partiti. La loro distanza non nasce dal fatto che sono pieni di gente furba e poco perbene. La corruzione e l'esercizio del privilegio hanno radici storiche. Quando i partiti erano tenuti insieme da una visione del mondo l'elettore sentiva di poter delegare il professionista del proprio partito per governare il paese. Sapeva (o credeva) che l'idea del segretario del partito era la sua stessa idea, perché quell'idea veniva da lontano e li avrebbe portati lontano».
E ora?
«Oggi la storia ha schiacciato questo presupposto e l'unico strumento valido nell'occidente del presente (domani, forse, non avrà più senso e dovremo trovarne altri) è quello della democrazia diretta e del superamento della delega. Purtroppo i cambiamenti importanti hanno bisogno di tempo e di impegno».
Un politico da salvare?
«Li salvo tutti e non salvo nessuno. Li salvo tutti perché hanno in mano uno strumento vecchio che non li porterà lontano. Sono ladri che rapinano banche e poi scappano a piedi. Non ne salvo nessuno perché, credendo nella democrazia diretta, penso che la vera politica non ha protagonisti».
Papa Francesco: uomo di marketing, dice qualcuno.
«Anche un cattolico si rende conto che Bergoglio è un testimonial straordinario. Non lo dico per offendere. Leggo sulle pagine, spesso superficiali ma molto popolari, di Wikipedia che per testimonial si intende una terza figura che con il sorriso, la cordialità, la competenza dimostrata e le qualità morali di cui è implicitamente portatore, garantisce personalmente in merito alla bontà del prodotto reclamizzato . È probabile che oltre a queste sue doti pubblicitarie e fascinatorie, Bergoglio sia stato eletto Papa anche per volontà della Divina Provvidenza come credono i cattolici. Ma io non sono cattolico».
Non fa tivù da tanto: come mai?
«Non smanio per fare tivù. Ci vado quando mi chiamano. E generalmente non mi chiamano».
Mai ospite a un talk show: paura di farsi narcotizzare?
«Faccio molto teatro. Questo impegno mi porta a non poter accettare tanti inviti e comunque non parteciperei a trasmissioni nelle quali ci si trova a sgomitare e ad affrontare questioni in maniera superficiale».
Il peggio e il meglio della tivù italiana.
«Non c'è un peggio e un meglio. A volte può esserci una differenza a livello di contenuti, ma linguisticamente è tutta una stessa cosa. La differenza dovrebbe farla lo spettatore».
E i giornali, si salvano?
«Il problema della comunicazione è che s'è trasformata in un unico flusso di narrazione. Inconsciamente lo spettatore o il lettore ha applicato alla prima lo stesso atteggiamento che ha per la seconda. La realtà viene recepita attraverso il filtro del gusto. Diciamo mi piace questo giornale, questa trasmissione come potremmo dire mi piace la pizza Margherita . C'è bisogno di allontanarsi dai media. Se nella realtà non riusciamo ad avvicinarci a decine di argomenti differenti, come possiamo farlo attraverso la mediazione dei giornali, della televisione o addirittura della Rete?»
Salga sulla plancia di comando e dia un'occhiata all'Italia: che le sembra?
«Sono ottimista. C'è un'Italia clandestina che alza la testa senza protagonismo. Che attiva i propri territori senza trasformare le sue battaglie in partiti che vanno a mettere il cappello sulla sedia di qualcuno appena defenestrato. Che mostra di non essere docile. Molte di queste battaglie saranno perse, ma eviteranno che contro questi territori vengano dichiarate altre guerre».
pisano@unionesarda.it